lunedì 15 marzo 2010

Manly



Ho portato via Manly, il mio bulldog di otto anni, perché certamente sarebbe finito male. Se lo avessi lasciato a loro, voglio dire. Non piace più a nessuno ora che è diventato vecchio e scontroso. Me ne è mancato il cuore. Allora l’ho portato con me.
E poi non disturba, Man. Russa solo un poco.
Scivolo, con il mio sloop, lungo l’estuario del Tamigi che è tornato a sembrare quasi bello, in questi ultimi anni.
Ho come una idea fissa, nella sbigottita costernazione di questo momento: è una parola magica, panacea assoluta quanto inaspettata, che mi si è presentata alla mente, come potesse, da sola, addolcirla e guarirla.

Mediterraneo.

Manly si è presto abituato alla vita di bordo. Forse ricorda i suoi trascorsi da marinaio, quando era cucciolo, e mia moglie era entusiasta di portare in crociera quel batuffolo bianco e beige dal brutto muso buffo.

Fa freddo nonostante sia giugno. Fa parte della navigazione nella Manica, insieme a questa pioggia insistente. Sto al riparo della capottina, dietro il grande paraspruzzi del mio Hallberg-Rassy. L’autopilota fa il suo lavoro, e Man resta accucciato all’imboccatura del tambuccio, guardandomi sornione. E’ un tratto di mare pericoloso per la scarsa visibilità e il traffico intenso di navi. Il radar mi è amico, e, sperando che il suo allarme funzioni, mi concedo un po’ al sonno, ogni tanto. Non faccio scali. Ne ho abbastanza di queste latitudini!

E’ inutile fare progetti.
Volevo tirar dritto fino a Gibilterra, ed eccomi qui. Una deviazione enorme fino a La Rochelle, nel vecchio porto. Fuori avevo trovato burrasca da ponente, mal di mare, e un po’ di terrore. Sana paura di morire, mica fisime. L’ora era giusta per entrare con la marea, e così ho fatto. Non ho trovato posto nel bacino protetto dalla chiusa, ed ora ho chiglia, skeg e timone affondati nel fango. La mia barca è ormeggiata, e allo stesso tempo appoggiata, ad un pontile galleggiante che ora è adagiato sul fondale in secca per la bassa marea. Manly, guidato dall’olfatto, girovaga per questa distesa, puzzolente e molle, che è il fondale del vecchio porto durante la bassa marea, e mette il naso dappertutto. Andrò a far un po’ di cambusa, e poi si vedrà.

Dei miei beni di famiglia, lasciati a mia moglie e ai miei figli per espiare la mia defezione (e riuscire a svignarmela senza finire troppo male), ho tenuto per me solo una piccola rendita che mi permetterà di mantenere questa velocità di fuga. Salvo imprevisti.
Del resto, ho rischiato di fare ritorno in quella confortevole clinica psichiatrica svizzera. Forse definitivamente. Imprevisto non da poco. Quindi non posso lamentarmi troppo ora, se ho trovato la forza e la lucidità per scappare via lontano.

Che ben-di-dio ai banchi del pesce! Ostriche, gamberoni crudi (non ho voglia di cucinarli, sono freschissimi!), e pure una bottiglia di champagne stasera, presa all’ultimo momento in quel negozietto che chiudeva. Che cena ragazzi!
E le crocchette mischiate a dei bei tocchi di roquefort di prima qualità per Man, che è euforico e grufola come un maialino, in tutto quell’odore... Lui si fida di me, e ciò gli basta. O forse è meglio dire: e ciò mi basta... Gliene sono grato. Sorrido.
Il meteo ha detto che il mare si è placato, il vento mi dice che è d'accordo. Prenderò il largo alla prossima marea. Che sta già arrivando: la barca, infatti, comincia a muoversi. Che bella cosa la marea! Ci prende e ci porta via! Hop!


In navigazione, seduto in pozzetto, ripenso alla prima volta, circa tre anni fa.
Persi il controllo inaspettatamente. Alla serata di gala del Reform Club di Londra. Cominciai a sproloquiare, mi dissero, insultandoli tutti. I soci, dico. Poi presi anche a calci nel sedere il presidente (uh-uh!), mentre scappava e il suo vice, proprio sugli stinchi, dove fa più male, perché era venuto in suo soccorso. Poi venni atterrato finalmente. Capperi! Io naturalmente non ricordo nulla, ma andò proprio così, me lo disse (Proprio così!) il ciambellano!
Seguirono visite mediche, terapie farmacologiche, vacanze angoscianti, sedute psicoanalitiche (no, quelle no), agopuntura (nemmeno!... scherzavo) e persino crisi mistiche (di mia sorella. Davvero! Giuro!). Tutto inutile: peggioravo.

Mia moglie era sbalordita. Ero diventato così disdicevole, imbarazzante, e inadatto! Fu un vero scandalo. Così fui ricoverato quella volta. Restai dentro più di sei mesi, eh! In Svizzera, appunto.
Dimesso, rimasi buono per un po’.
Poi, la sera di Natale ricominciai daccapo, questa volta con l’arcivescovo di Canterbury, se ricordo bene, o era un altro, non so. So che ci aveva un ghigno mentre pontificava, che… oh, beh! Non fu uno scherzo. Oh no!
No, non ricordo. Però le presi di santa ragione, trattandosi di un alto prelato (oh beh!) e fui internato d’urgenza.

Ah! La Svizzera verde … E difatti era proprio verde quando ne uscii, quasi un anno e mezzo dopo, dico, mica bubbole. Primavera!
Fu allora che riuscii a tirarmene fuori, ero abbastanza lucido da fare un bel discorsetto convincente alla mia illustre famiglia riunita. Mia sorella si convertì cattolica, all’istante dico, per potersi fare il segno della croce, (zac-zac-zac!), e mia moglie sollevò il labbro superiore tutto tremante, (trrrrrr!), mentre la cara zia Elizabeth, sorella vivente nientepopodimenoché del mio defunto nobile padre, applaudì (clap!clap!).

E fu così che io riuscii a fuggire con Mary.

Mary è la mia barca. Però!... Che nome del cazzo, per una barca!

Oggi, tra il Marocco e la Spagna, penetrando di prepotenza, spinto a viva forza dal vento e dalla corrente in questo antico mare capriccioso, cavalcandone le onde corte e dure, sono quasi felice.
Il boma spazza violentemente la coperta, e passa, con fracasso terribile, sulle nuove mura. Non mi ero accorto che il vento è girato, e dal lasco ero passato al fil di ruota. Strambata involontaria! Non vedo niente di rotto, però che rabbia! Correggo la rotta e regolo le vele.

Manly ha appena finito di orinare, e mi guarda colpevole. Sa che quello non è il suo angolino, ma forse si è agitato per il trambusto. Ha paura di una strapazzata.
Abbasso le braghe e la faccio pure io. Eh eh! Sopra la sua! Là!
“Sono o non sono il comandante del vascello, qui?” domando ad alta voce, con fare cavernoso.
Ora lui mi guarda interrogativo, poi finge di sbadigliare. Si scrolla bene. Poi, decisamente, si gratta.
Prendo il bugliolo attaccato alla sua sagola, e lavo il pozzetto a grandi secchiate, una volta, due volte , tre volte. Basta così, è pulito!
L’acqua scorre dagli ombrinali, poco dopo il teack asciuga, e torna del suo bel grigio chiaro, salato, lavato. Pu-ri-fi-ca-to.
Seduto in pozzetto, ridendo forte, accarezzo Manly tra le orecchie.
“E’ ora di farsi una birra, amico.”
“Così poi si piscia ancora!”

Avevo stabilito di fare scalo a Gibilterra e restarvi per almeno due giorni. Così credevo. Ora invece ci sto passando davanti al gran lasco, a nove nodi, e non ho nessuna voglia di fermarmi. Sarà per un’altra volta.
Mi sorprendo a sghignazzare forte.

La libido. Devo ricorrere al self-control? Naa… E tempo di self-service!

Dopo una iniziale e iniziatica (suona bene, ma che mai vorrà dire?) navigazione con mare duro e vento forte, per fortuna prevalentemente al lasco, il Mediterraneo mi presenta bonaccia con onda lunga. Merda!
Siamo a luglio, d’altronde, può accadere. Di nuovo mal di mare.

Giungo a Ibiza a motore, e attracco al Marina Botafoch per fare rifornimento di acqua, gasolio, viveri e riposarmi. Mi faccio assegnare un posto in banchina, e la sera sto già passeggiando con Manly sul lungomare. C’è molta gente, un sacco di ragazze ed io non devo avere un bell’aspetto. Ho la barba lunga e forse puzzo. Anzi, sicuro. Come se ciò non bastasse un desiderio prorompente mi pulsa di nuovo nei pantaloni. Ehi! Devo stare decisamente molto meglio!

Da quando ero diventato... strano, Mary, mia moglie (ah! ecco perché la mia barca ha ‘sto nome!), mi aveva evitato. Da tre anni. Eh, beh!
Ed anche Nelly, la mia giovane avida amica, una volta capito il problema, lo faceva a stento. Che fatica, poverina!

“Caro Man, ormai son tre ore che stiamo a spasso, tanto per dire!” dico al mio compagno “Spero che tu ti sia sfogato per bene, perché è ora che io faccia una doccia, mi sbarbi e sembri un uomo... più o meno presentabile. Rassegnati caro, tu andrai a nanna.”
Non ha capito nulla, ma mi segue entusiasta fino alla banchina, poi lo prendo in braccio, e salgo in barca. Ed è lì che Manly capisce la fregatura!

La notte mi vede, lupo solitario, al banco dei bar, vestito e sbarbato comme-il-faut, mentre mi guardo intorno, in caccia di donzelle.
Se devo essere squallido, tanto vale andare fino in fondo.
Finalmente trovo il bar giusto, mi sembra. (Data anche l’ora, bisogna pur accontentarsi. Non ho combinato niente fino adesso!)
Adocchio il bersaglio! Se quella signorina non è qui per questo, beh, mi sarò sbagliato... Oh yeah!
Un’ora e due bottiglie di champagne più tardi (non chiedetemi la marca), affacciato all’osteriggio, non ho difficoltà a convincere Manly di smettere di russare e far buon viso, anzi muso, alla nuova ospite della barca.
Lei pensava che stesse ringhiando! Ma quando mai! Il suo istinto di guardiano, se mai c’era stato, con gli anni era proprio svanito del tutto.
Lui chiede solo di non essere disturbato, e lei di essere pagata. Che meraviglia!
“Mi ha fatto morire di paura quella tua bestia, tesoro.” mi dice la signorina in un inglese incerto.
“Ma se non l’hai ancora vista, la mia bestia, Carmencita mia!” sparai io.
Le sue rughe erano adesso ben evidenti nel chiarore della dinette illuminata. Poteva avere quarantaquattro anni, forse trentadue.
“Ah! Ah! Ah!” bluffò.
“Togliti la gonna e le mutande, e fammi vedere il culo, per favore.” Contraccambiai io.
Detto fatto. Era ancora sodo.

La prossima destinazione è Cagliari, o almeno così penso io, perché ultimamente non è che abbia molta fiducia nelle decisioni prese.
Però almeno le prendo. Già!
Questa volta ce l’ho sul muso, il vento dico, e, anziché procedere a motore, preferisco tirare dei bordi di bolina. Navigazione a vela. Fretta non ne ho. Il vento e il mare non sono troppo duri. Mi sto divertendo molto.
Incredibile!!!

Carmen ci aveva saputo fare, anche perché fortunatamente ad un certo punto aveva smesso di bere (avevo aperto un’altra bottiglia), e si era impegnata nel lavoro per davvero. Incredibile quanto regga l’alcol ‘sta figliola! Penso che le sue grandi manovre avrebbero fatto impallidire la mia giovane, già esangue a dire il vero, amica dell’Essex. Nelly.
A parte la notevole diversità riguardante competenza, età, e diverso colore del pelo, la motivazione delle due donne è la stessa. Lo dico francamente: la mia ex-amante era innamorata dei miei soldi, dell’appartamento che le avevo affittato (meno male!) in Old Bond Street, della BMW spider avuta in regalo (ahia!) e non certo dei miei occhi azzurri, da neuropatico, circondati da profonde occhiaie.
Carmen, invece si accontenta di piccoli regali da tanti uomini. Meno egoista. Più leale.

Curo spesso la regolazione delle scotte perché voglio che la barca stringa al vento come si deve... Come può insomma! Il mio Hallberg-Rassy 46 non è certo un racing-cruiser, ma non è nemmeno tanto pigro come dicono i malvagi. (Piuttosto, se volete proprio, dite pure che, all'ancora, rolla un po’ troppo!)
German Frers ha creato uno splendido animale che ha bisogno di vento, non di deboli brezze. Ed ora ce l’ha. E naviga maestosamente.

Carmen mi è piaciuta, e ho deciso di affittarla fino a Cagliari, ritorno in aereo compreso; il canone di locazione offertole, pagamento anticipato in sterline sonanti, deve essere stato di gran lunga superiore alle sue aspettative, a giudicare dal suo irrefrenabile:
“Uaoh! Tu estàs loco!!!”

Adesso però lei è un po’ verdognola, quasi rattrappita per il mal di mare, giù in cabina. Ogni tanto le cambio il bugliolo. E’ il suo primo giorno. Beh, se continua così ho buttato il denaro.

Credo di aver parlato da solo per un po’ questa notte in pozzetto, perché questa mattina Carmen, un po’ più rosea di ieri, mi ha chiesto sorridendo se c’era una clandestina a bordo. Non si accorge di essere lei, la clandestina. Ah!
E mi ha preparato il caffè. Fortissimo e troppo zuccherato. E anche delle tapas. Mmmh! Buone.

Io mi occupo di Manly e della barca. Lei prepara il pranzo, riordina sottocoperta, e canta persino... con una bella voce! Non era nel contratto, eh no!
Si è ripresa molto bene.

Devo stare attento alle stranezze, attento! Certe volte lei mi guarda insospettita. Ma cosa vuole questa qui?
E’ che io non me ne rendo conto, quando succede, quasi mai.

Ho fatto male a imbarcarla. Maledizione, maledizione, non vedo l’ora che finisca. Non la sopporto, la muchacha. Il vento è sempre sul muso, dannato vento!
Non mi diverto più... Dò motore, rollo il genoa, randa ben cazzata al centro! Ah sì come si deve... come si deve! Rotta diretta su Cagliari, anzi direttissima! Non la sopporto. Esta muchacha. Prua al vento! Sbarcare! Sbarcare! Sbarcare!

L’onda della libido si è diretta ad altri lidi. Questa sera è un disastro. E senza bere un goccio. Che altrimenti avevo la scusa. Che scusa? Ridicolo.

Cosa? Che cosa?? Cosa?!? Le ho persino detto... Le ho persino confidato…
No, non voglio pensarci. No, no, non voglio pensarci.
Perché mioddio! mioddio! mioddio! non ce la faccio non ce la farò, non ce la faccio non ce la farò. non ce la faccio non ce la farò, non...
Perché questo sporco esistere è corruzione, è corrotto. Non vedi? E’ tutto corrotto fino al midollo!
E alla base di tutto c’è la pu-tre-fa-zio-ne. Putrefazione!!!
Ah! Ah! Ah! come gorgoglia il tempo qui. (Di Giacomo?!? E chi è Di Giacomo???)
E chi è? e chi è questa lurida prostituta? questa lurida puttana infetta che mi giudica? cosa c’è nei suoi occhi?
Che cosa c’è, di così maledettamente … UMANO, nel suo sguardo??
Cosa vuole da me?
Che cosa vuole da me????
E’ forse mia moglie? è forse mia sorella?? è forse mia madre???
No! No? No-o-o??? E allora bisogna provvedere. Bisogna pu-ri-fi-car-la. Farla divenire degna. Degna del suo Ruolo di Giudice. Vieni qua, donna, che ti elevo. Che ti elevo subito. (Sì! Ti filo nella scia!!!)
A-a-ah! adesso non vuoi più giudicarmi? Dove vuoi scappare? Non lo sai che non puoi andare da nessuna parte? Che qui fuori c’è il grande mare e la notte infinita?... La NOTTE!
Già, la notte… Le luci! Le luci di navigazione... E’ già buio... Dove stiamo andando, con questo motore maledetto? Meglio spegnerlo. Meglio mettersi in panna…
Che potresti affogare, sai? Se tu, sorella, cadessi in acqua. Si può cadere in mare, eh, sì! Piangi?… Ah, come piangi! E come mai? Che mi carezzi a fare, che cosa stai dicendo, sorellina? Di stare calmo? Calmo ? Calmo io?!?
Sono calmissimo, io. Sì! Mai stato così calmo.
Sei tu che... Tu.
Sei tu che sei calma, perché altrimenti io non ce la farei.
Parli troppo sai. (La tua voce è così dolce.)
Ma come fai?
Potrei non capire qualcosa. Sei maleducata sai. In spagnolo poi!
E ora canti? Ti sei messa a cantare??? A me?!? Ma cos’hai in testa? Farfalle?? Potrei metterti a tacere. (La tua voce è così dolce.) Cancellare quella bocca rossa dal tuo viso.
E perché mi accarezzi?
Cosa c’è nei tuoi occhi! Non lo puoi nemmeno immaginare. Cosa ti salta in mente??? Non c’è da piangere…
Perché mi accarezzi?
Le tue rughe... sono… sono così belle. Le tue rughe da bambina vecchia.
Sai che ora sono tanto stanco. Sono stremato, sai.
Sono così bravo io a...
Devo dormire ora. Ma…come fai? Ma…”

Silenzio. Solo lo sciabordio dei flutti. Apro gli occhi. Ricordo che non so come avevo spento il motore e mi ero messo in panna. E’ mattina. Vedo sul quadro che le luci di via sono ancora accese.
Lei è già sveglia, seduta, che mi guarda con gli occhi stanchi. Man tranquillo, dorme.
“Scusa.” dico. Lei si alza e mi raggiunge. Senza alcun timore mi passa la sua mano sulla guancia.
“Va tutto bene adesso. Ho avuto una crisi.” faticavo a parlare.
“Ho visto.” dice.
“Senti, perdonami, non sapevo… Questa cosa non mi capita mai.” Mentii.
“Puoi stare tranquillo adesso. Oggi andrà bene, non succederà.”
“Ma tu come fai?... “ domandai
“Ne ho viste nella vita, hombre.” Rispose “Quella cosa che tu hai… la conosco bene.”
Si sedette vicino e raccolse le ginocchia al petto.
“Ci ho passato l’infanzia.” si sfregò le palme delle mani sul viso e continuò.
“Mia madre ne aveva paura. Scappava via quando capitava. Usciva di casa e sbatteva la porta. Pàm! Si vergognava.” Fece una pausa. “Quando capitava a papà.”
Man si sveglia e viene a sfregare il muso sulle mie gambe. Deve fare i suoi bisogni.
“Io no.” Continuò. “Io non scappavo. A volte lui si faceva del male. E io potevo impedirglielo. Lo aiutavo. Lo assecondavo, ma gli impedivo di fare cazzate. Gli cantavo le sue canzoni preferite, e riuscivo quasi sempre a calmarlo.”
Mi prese il mento tra le dita, con un gesto d’affetto.
“Come ho fatto con te stanotte.”
Sorrise, e aggiunse con tono amaro: “Anche in questo, come vedi, ci so fare!”
Io mi vergogno come un ladro. Le domando:
“Non hai mai paura? Lui poteva farti del male. Io potevo farti del male…”
“Tu non mi hai fatto niente. Lui solo qualche volta…”
Fece una pausa e si morse il labbro.
“No. Non ho mai avuto paura se lo vuoi sapere.” guardandomi fisso negli occhi. Nemmeno con te, che sei un estraneo.”
Sorrise amaramente perdendo lo sguardo innanzi a sé.
“Forse io sono più pazza di te!” concluse.

Prendo Manly in braccio e lo porto in coperta. Tiro un paio di secchiate, tolgo la mano di terzaroli, apro tutto il genoa e mi metto alla puggia dirigendo con l’autopilota a nord-ovest. Scendo nel quadrato e faccio il punto. Non ci sono sorprese: più o meno dove pensavo.
Salgo di nuovo in pozzetto, correggo un poco la rotta, e metto a segno le vele.
“Dovremmo essere a Ibiza per domani.” dico, tornando di sotto.
Un lungo silenzio, e poi:
“Beh, ho fame, preparo la colazione” annuncia Carmen sorridendo.
Il mio stirato sorriso in risposta.

E’ sera. La giornata di navigazione è passata tranquilla al lasco. Domani saremo in porto. Io ho parlato poco perché mi vergogno. Lei cercava di scherzare.
Ha voluto far l’amore poco fa. Adesso mi sta accarezzando i capelli. Penso a Man quando gli gratto la testa.
“Mi dispiace.” dice lei.
“... ”
“So quanto ti fa soffrire, questa cosa.” aggiunge.
La malattia mentale è un baratro di solitudine, tranne qualche raro, prezioso momento d’incontro. Questa è la verità.
“Va tutto bene.” dico.

E’ sbarcata ieri pomeriggio. Io sono ripartito subito.
Non so nemmeno se ho diritto alla libertà. Non ho mai fatto male a nessuno finora, però... Forse dovevo lasciarmi rinchiudere. Forse avevano ragione.
Resterò in mare. Resterò in mare, il più possibile, e farò scalo solo per i rifornimenti. Solo Man sarà testimone della mia follia. A lui non farò mai del male!
Non vado più a Cagliari. Sto facendo rotta verso il Mar Egeo.

Sono una mina vagante.

Il mio amico autopilota fa il suo lavoro. Il gruppo elettrogeno borbotta per tre sole ore al giorno. Il radar è sempre di vedetta. Non so proprio come faremmo, Man ed io, senza questi nostri amici. Anche Mary è tutta contenta: scodinzola al gran lasco, navigando verso l’Egeo. Ma questa volta le ho messo la ritenuta del boma. Non deve più farsi male, poverina. Però, al diavolo la superstizione: voglio cambiarle il nome. La chiamerò...

Seduto in pozzetto, cercando invano un nome per la mia barca, un nome che sia la perfezione, gratto Man tra le orecchie.

E lui grugnisce di contentezza.



Note:
L'immagine è liberamente ispirata aStock Photo - Face of a bulldog IS291-043 Image Source Royalty Free Photograph

Di Giacomo? Chi è Francesco di Giacomo? Lo ricordiamo noi al protagonista del racconto. E' la voce solista del Banco del Mutuo Soccorso, dalla quale "gorgoglia il tempo"... ;)

"Da qui, messere, si domina la valle.
Ciò che si vede è. Ma se l'imago è scarna
al vostro occhio, scendiamo a rimirarla
da più in basso. E planeremo in un galoppo alato
dentro il cratere ove gorgoglia il tempo."

Banco del Mutuo Soccorso, Traccia

martedì 9 marzo 2010

Thérèse

(Eh, sì... la lunga onda di stand-by continua.... e allora:

stand by me / se ti va / stand by me-e / yeah...
Just as long as you stand, stand by me... cantava Ben E. King... o non era proprio così?...)



“... Non ho ancora compiuto trent’anni, eppure mi sento già vecchio, come se tutto fosse per me già compiuto e definitivo. A volte mi sembra di perdere la ragione .


Chiamami, ti prego.


+33-963700…”





Con queste parole terminava l’e-mail di Alex: non mi stupivo del tono, né del contenuto della stessa, perché lo conoscevo abbastanza bene per sapere del suo vittimismo e delle sue debolezze.
Invece non conoscevo affatto la sua compagna, con la quale viveva da più di tre anni, e con cui si era totalmente isolato.
Non mi piaceva l’idea di andare a trovarlo in quelle condizioni, viste le premesse. Forse serbavo ancora un po’ di rancore nei suoi confronti, anche se eravamo rimasti amici. Ma tant’è… nonostante fossi in vacanza, nella villa dei miei genitori a Forte dei Marmi, mi annoiavo parecchio, e poi questa storia mi intrigava abbastanza.
Lui era andato ad abitare in Francia, in una vecchia casa ristrutturata, nella Bretagna del nord; lì a quanto pare non faceva nulla. (Alex era pigro e benestante.)
Alla fine presi il telefono.



All’aeroporto di Lannion era lì ad aspettarmi: la stessa aria da ragazzo ben educato, un po’ timido, un po’ impacciato, nel suo metro e novanta d’altezza. Lo avevo sempre trovato buffo per questo, anche quando ero stata innamorata di lui.
“Giulia!”
Portava un paio di jeans sdruciti e una t-shirt, trasandato come sempre, come quando l’avevo conosciuto, sei anni prima.
Saliti in auto, mentre guidava, vidi che il suo viso era già segnato da rughe profonde; lui parlava e sorrideva, mentre io osservavo come questi pochi anni avevano cambiato così profondamente il suo volto.
“E Thérèse?” chiesi.
“Ha preparato una cena speciale per l’occasione. E’ tanto curiosa di conoscerti.”

Passata Tréguier, imboccò una stradina immersa nel verde, poi un’altra più stretta, e un’altra, sterrata. Ma dove abitava Alex?
Dopo una curva, il mare. Ma non come me lo aspettavo in Bretagna. Credevo di vedere le possenti onde oceaniche infrangersi contro alte scogliere di granito, mentre qui, in parte celato dalla ricca vegetazione, osservavo un paesaggio decisamente lagunare

Alex guidava la vecchia Land Rover come se partecipasse ad un rally.
“Scusa, potresti andare più adagio?”
“E’ che siamo in ritardo, Giulia. Il tuo aereo è arrivato con più di un’ora di ritardo. Eh... sì... in ritardo...” e non terminò la frase.
“In ritardo per cosa?”
“In ritardo per la marea.”

Vidi la piccola isola ammiccare verdeggiante nella baia. Lo specchio d’acqua era calmo, i colori nel cielo accesi, l’acqua azzurra e limpida. Se non fosse stato per la temperatura decisamente fresca, e per l’assenza degli alberi da cocco, mi sarebbe sembrata una laguna di un atollo corallino dei mari tropicali, e quell’isolotto un suo motu [1].
“Sta già salendo! Ce la facciamo per un pelo!” disse Alex.
La stradina finiva... nell’acqua, come uno scivolo d’alaggio. E lui vi si tuffò, alla guida del suo fuoristrada, senza esitare un attimo. Riconosco che emisi un grido poco dignitoso.
“Tranquilla, questo è il tratto più profondo, poi risale...” borbottò, attento al suo guado.
La Land alzava due grandi baffi di schiuma, che arrivavano come una cascata sul parabrezza e sui finestrini. I tergicristalli a tutta velocità, e l’acqua già mi bagnava le scarpe.
“Alex?...”
“Sì?”
“Vai al diavolo!”

Non si trattava proprio di un’isola. E nemmeno di una penisola. Era l’una e l’altra secondo la volontà del mare.
Era il posto più assurdo che si poteva trovare per andarci a vivere. Neanche a dirlo, Alex abitava lì.
L’antica casa, unica costruzione del luogo, era di pietra scura, il tetto spiovente di ardesia, con la finestrella della mansarda. Alle due estremità del tetto spuntavano, come torri, due enormi camini. Sulla facciata, di due piani, solo quattro finestre, non molto grandi, prive di tende, i cui vetri scuri apparivano impenetrabili, incorniciate di granito chiaro. Dello stesso granito era l’arco del portone.
Costruita sulla sommità di quell’isolotto, la casa tuttavia era parzialmente nascosta dalla vegetazione. Solo la lunga antenna, sulla cui sommità era montato un grande generatore eolico, dava un evidente segno di sé.
“Ma sei anche senza corrente qui?” gli domandai allibita.
“Ah, il generatore... è in più. No, guarda che qui c’è tutto. Siamo allacciati a luce e telefono. Tutto. Solo che a volte non vanno. E poi il vento non costa niente. E qui ce n’è sempre tanto...”
Guardai le pale che giravano pigramente.
“Non mi sembra…” obiettai.
“Beh, siamo nel cuore dell’estate... Dovessi vedere d’inverno!”
Indossai la felpa, percorsa da un leggero tremito. No, non faceva caldo qui. Provai a immaginare cosa ci fosse di inverno.
“E’ molto particolare” provai a dire “Voglio dire è un bel rifugio per chi voglia rilassarsi, Alex, ma tu ci vivi tutto l’anno!? Io trovo che...”
“Sì, ma non è solo questo, Giulia...” mi interruppe accigliato, e poi subito dopo tutto contento:
“Ah! Thérèse deve aver preparato una cena squisita!”
Le nuvole correvano veloci e cambiavano forma e colore, rapidamente.





Mentre facevo la doccia ero furiosa di essere lì, e nemmeno mi sembravano più tanto noiosi i giorni trascorsi a Forte dei Marmi.
Mi asciugai nervosamente i capelli, e andai a prendere il mio smartphone, che avevo in borsa. Volevo assolutamente prenotare un biglietto aereo di ritorno… Ma… Sorpresa! Niente campo!
“Di bene in meglio!” esclamai stizzita.
Mi buttai, nuda, sul letto con il telefonino in mano.
Si sentiva, dalla finestra, il lento mormorio della marea crescente. E nient’altro. Non ero abituata a quel silenzio.
Non so perché, andai a ripescare nella memoria dello smartphone la lettera di Alex.


“... è cambiato tutto tra noi: Thérèse ed io stiamo vivendo al limite di tutto, e passiamo repentinamente da una esaltazione sfrenata, alla più cupa disperazione, ed è sempre lei a stabilire il momento.”


Mi veniva da pensare ai racconti che lui scriveva e che poi veniva a leggermi: retorica romantica, forti passioni, fragilità emotiva. Che noia!
Il letto era soffice e le lenzuola profumavano delicatamente di lavanda. Mio malgrado ricominciai a pensare al passato, ad una gita fatta in collina, in Liguria. Fu allora che lui colse un gran mazzo di questi fiori, e mentre parlavamo, lo lavorò con calma, ne fece tanti piccoli canestri in modo che tutti i gambi intorno racchiudevano i fiori all’interno, e me li regalò. A modo suo, a dire il vero, perché cominciò a infilarmeli prima nella scollatura, poi dappertutto. Insomma dopo poco ci ritrovammo nudi, a fare l’amore sull’erba.


“Siamo cambiati molto, non viaggiamo più anzi, a dire il vero, non lasciamo più questa dannata casa da mesi. è successo qualcosa di strano e di grave… So di chiederti molto, ma vorrei che tu mi aiutassi; forse anche solamente la tua presenza qui potrebbe risolvere molte cose. Anche Thérèse sarebbe molto contenta di conoscerti.”


Già!!! Infatti al nostro arrivo non si era fatta trovare in casa.
Ciò mi aveva ferito, e intorbidiva sul nascere tutti i nostri rapporti

Oh, accidenti! Forse c’era stato un contrattempo che spiegava la sua assenza, ma perché non aveva chiamato?
E ormai per circa sei ore il collegamento con la terra era precluso, se non con una barca.
Infatti Alex, sorpreso e agitato per l’assenza di Thérèse, dopo aver inutilmente provato a telefonarle, aveva preso la lancia a motore, ed era andato a cercarla.
Mi aveva chiesto se avessi voluto andare con lui, ma avevo rifiutato, arrabbiata e scontenta.
Restando sola, unica abitante di quel luogo incredibile.
In una casa antica, tetra, buia e sconosciuta.
Per di più quasi al tramonto.
E con l’alta marea.
Bloccata qui, perché l’unica barca se l’era presa Alex.
Sentii che il generatore eolico aveva accelerato i suoi battiti, per un rinforzo del vento.
Il mio cuore anche, per la paura improvvisa

Scattai in piedi, mi vestii in un secondo, e un attimo dopo ero giù in cucina. Il telefono era lì, rassicurante, appeso alla parete. I coltelli da cucina, in una rastrelliera, anche. Presi il più grosso e accesi la televisione.
Che si spense subito dopo. Era mancata la corrente.
Il generatore eolico batteva regolare i suoi colpi. Evidentemente la sua attivazione in caso di black-out non era automatica. Doveva esserci l’interruttore da qualche parte. Ma dove?
Si stava facendo buio.
Piano, piano... Il tramonto è lento a queste latitudini.
“Adesso mi metto a piangere.” dissi io ad alta voce

Oh, ti prego, non farlo.” lei rispose.
Trasalii, afferrai istintivamente il coltello e mi girai di scatto: in piedi, accanto alla porta aperta, c’era una donna molto bella, i capelli corvini, lo sguardo intenso.
Era sorridente e portava due grosse buste di plastica piene di generi alimentari.
“Ciao Giulia,” disse con voce pacata “io sono Thérèse.”
“Ciao...” risposi io, mentre sentivo delle vampate di calore aggredirmi le guance.
“Attenta con quello!” esclamò lei, trattenendo il riso, “è molto affilato.”
E si avvicinò decisa al tavolo, appoggiandovi le borse di plastica, e mi porse la mano allegramente.
Solo allora mi accorsi che stavo ancora impugnando il coltellaccio, e quasi lo buttai sul tavolo, imbarazzatissima.
La sua stretta di mano era calda e rassicurante.
“E’ un posto strano, lo so,” continuò lei “all’inizio mette... soggezione. Può sembrare... ad una certa ora… come si dice… ah sì… inquietante. Ah, il mio italiano è arrugginito! Ah, sì...” e fece per accendere la luce: “E’ mancata un’altra volta! Ora collego il generatore.”
L’interruttore del generatore era in bella vista vicino alla finestra.
Si accese una luce fioca.
“E’ tutto quello che sa fare.” disse lei, guardandomi divertita.
“Perdonami se non ero qui al tuo arrivo,” continuò allegramente “ma Alex è il solito distratto!”
(E questo era vero.)
“Oggi si era incaricato di fare provviste in paese, e poi non ha fatto nulla; per fortuna me ne sono accorta in tempo, che mancava tutto! Sai, per arrivare ce ne vuole, e ce l’ho fatta per un pelo, stavano già chiudendo quando sono arrivata con la mia deux-chevaux che fumava!”
“Ma non...” mentii io.
“Credimi, mi è dispiaciuto di non essere presente al tuo arrivo. Al ritorno ero bloccata dalla marea, ma per fortuna poi è arrivato Alex con la barca, ed era pure arrabbiato con me!”
Alzò gli occhi al cielo e continuò: “Che faccia tosta! è incredibile quell’uomo!”
Ammetto che mi aveva già disarmata.
In quel momento stava entrando Alex con uno scatolone pieno di lattine, vasetti e scatolette. Aveva le scarpe e il fondo dei pantaloni bagnati.
Si fermò un attimo sulla soglia titubante osservandoci parlare, poi si aprì in un grande sorriso.
“Cazzo, che felicità!” disse senza preamboli, ed entrò in cucina.





Stavo seduta sul cavalluccio a dondolo di legno della giostra della mia infanzia a Forte dei Marmi, quando mi accorsi che Thérèse mi stava lavando i capelli, in una tinozza dietro le mie spalle, passandomi delicatamente le dita sulle tempie. Sentivo un intenso profumo di sandalo, ed un grande calore mi pervadeva il corpo. Forse perché l’acqua era troppo calda, e colava dappertutto.
“Térèse, ti prego”, dissi piano, “non fare così, mi stai bagnando…”
Il cavalluccio dondolava pigramente mentre la giostra girava in un silenzio irreale di luci e colori. Davanti a me, la lunga criniera si mosse, e la testa lignea del cavallo si girò a guardarmi: era quella di Alex che sorrideva.
Alle mie spalle, Thérèse, continuava a lavarmi i capelli, accarezzandomi con dita capaci, sfiorandomi i lobi delle orecchie con le sue labbra, mentre mi cantava sottovoce:
“Man ganin un ebeul melen” pareva un’antica melodia celtica “O kaout pevar bloaz’oad...”
Mi girai verso di lei piena di stupore, ma non riuscii ad articolare una sola parola.
“Ha peder bot arc’hant... E dan e pevar troad.” Thérèse, tranquilla, finì la sua nenia incantatrice. Poi, chinandosi ancora più sopra di me, mi baciò sulla bocca, profondamente

Vergognosa e indispettita, madida di sudore, con le tempie che pulsavano per il brusco risveglio, faticai a trovare l’interruttore dell’abat-à-jour.
Accesa la luce, mi misi a sedere sul letto. Faticavo a calmarmi.
In fondo non si trattava che di un sogno.
I battiti, incessanti, del generatore eolico accompagnavano le ore della notte.
Ripensai alla serata trascorsa piacevolmente, e alla cena, che, anche se preparata in fretta, si era rivelata straordinaria.
Thérèse era stata molto simpatica, e aveva dimostrato una forte personalità, dominante nei confronti di Alex.
Lui, dal canto suo aveva dimostrato una grande gioia nel vederci socializzare.
Devo ammettere che mi ero sentita bene con lei, il suo tono di voce pacato e i suoi modi sicuri mi piacevano molto. E quella vecchia casa aveva cessato ben presto di intimidirmi, quella sera.
Ma dopo il mio risveglio, ora, nel cuore della notte, tutto mi sembrava nuovamente strano e inquietante.
Mi riaddormentai molto tempo dopo, con la luce accesa.





L’indomani. Cucina assolata.
Thérèse, tranquilla, sfaccenda in cucina e canta piano. Alex fa colazione taciturno e pensieroso. Ha già cambiato umore.
Profumo di caffè e di dolci. Un grande far, torta bretone, troneggia sul tavolo.
Io sono in piedi, con una fetta deliziosa in mano e una vecchia cornetta del telefono nell’altra.

“Giulia! Dove sei? Non sei raggiungibile sul cellulare! I tuoi mi hanno dato questo numero... Sai, sono appena tornato. Il torneo per me è finito, accidenti. Sono stato eliminato quasi subito. Credevo di trovarti a Forte dei Marmi! Cos’è successo?”
“Amore! Che peccato per il torneo... Qui non c’è campo. Sono da... amici, vecchi amici che mi hanno invitato improvvisamente in Bretagna... Ma ora che sei tornato... Vorrei essere lì, con te.”
“Ti amo, Giulia...”
“Anch’io ti amo. Vedrò di liberarmi al più presto. Sai, sono arrivata qui soltanto ieri.”
“Ma cosa ci fai lì? Tu adori il caldo! Allora potevi venire con me in Inghilterra...”
“Odio i tornei di tennis, amore, lo sai. Comunque tornerò presto, te lo prometto. Due o tre giorni al massimo.”
“Ti desidero, Giulia.”
“Anche tu mi manchi tanto...” (Sottovoce.)
“Ciao amore...”
“Tranquillo, tornerò prestissimo.”

Agganciai il ricevitore, e addentai con allegria la fetta di torta.
“E’ una giornata splendente!” esclamò Thérèse, “Alex, perché non ci porti a fare una bella uscita in barca?”
“Bisogna sempre ben scuoterlo, questo pigrone!” aggiunse rivolta a me, facendomi un’occhiatina complice.



Thérèse, alla barra del piccolo Arpège, risaliva il vento fresco guadagnandosi velocemente il largo. Col favore della corrente avevamo già scapolato il pericoloso banco del Sillon de Talbert.
Alex ed io, le gambe penzoloni sulla murata sopravvento, ci godevamo la navigazione assieme a qualche spruzzo gelato.
“E’ molto più brava di me, te ne sarai accorta. E poi conosce alla perfezione questa costa, le sue maree, le sue correnti...” diceva lui, con lo sguardo assente.
“Perché mi hai fatto venire, Alex?”
Ammutolì per un attimo. Poi chinò la testa.
“... Ho sbagliato Giulia. Sono stato un illuso. Ascolta... Sarebbe meglio che tu partissi...”
Questa, poi!

“Ma insomma, cos’è questa storia! ” risposi seccata “Mi avevi scritto che era successo qualcosa di grave, Alex. Poi fai finta di niente… Vuoi spiegarmi qualcosa, ora?”
Alex rimase silenzioso e addolorato per qualche istante, con lo sguardo perso sull’orizzonte.
“E’ pericolosa, Giulia.” bisbigliò piano “Thérèse è molto pericolosa...” e, come colpito da un ricordo angosciante, chiuse gli occhi e sussurrò: “Dio!… Dio mio! Era solo una ragazzina!!!…”
Poi cominciò a raccontare



Durante quella navigazione, avevo preso la decisione che sarei ripartita subito. Ciò che avevo sentito da Alex era stato più che sufficiente.
In quella strana coppia chi dava segno di squilibrio, contrariamente a quello che avrebbe voluto farmi credere, era certamente lui, neanche a dirlo.
Probabilmente aveva un esaurimento nervoso.
Questa cosa però non poteva certo diventare un mio problema. Anche se con dispiacere, dovevo scrollarmi di dosso al più presto quel maldestro tentativo di coinvolgermi.
Thérèse era stata discreta e ci aveva lasciati ai nostri discorsi. Spesso io cercavo uno sguardo di intesa da lei, un qualsiasi appiglio per uscire da quella assurda conversazione con Alex, e lei ricambiava con un sorriso. Ma non si era mai voluta intromettere.

Al ritorno, la navigazione al lasco e la calma improvvisa dell’oceano avevano creato un grande silenzio. Alex continuava a confidarmi le sue farneticazioni sottovoce, io desideravo solo andarmene lontano, e Thérèse, sempre alla barra, era attenta alla regolazione delle vele, e non sembrava fare caso a noi

Il vento calò all’improvviso, e, come un manto ovattato, scese, fittissima, la nebbia.
Che è un grande pericolo in mare. Però non feci in tempo a preoccuparmene...
“Man ganin un ebeul melen...” ...perché infatti si levò subito, dolcissimo, il canto...
“O kaout pevar bloaz’oad...” ...come una nenia ipnotica...
“Ha peder bot arc’hant...” ... e vidi Alex, impallidito, che ci guardava tremando...
“E dan e pevar troad...” Thérèse mi prese la mano cantando, e vi disegnò sopra l’Occhio della Medusa...
“Mae genni ebol melyn...” ...Io...docile... Vi portai sopra lo sguardo.
“O dan e pedwar troed...” Lo vidi, l’Occhio della Medusa, e mi sentii diventare Antica Pietra. Il Tempo si dilatava e mi avvolse come un sudario.
“Tud an Argoad ha tud an Arvor...” Io capii che non sarei stata mai più capace di compiere un solo movimento.
“Yn codi pedair oed...” ...
E compresi anche che non sarei mai morta.
“O kaout pevar bloaz’oad...”
Lei allora diventò alta fino al cielo, mentre scendeva dalla barca.
Alex urlava a squarciagola, la testa tra le mani, il bianco degli occhi arrovesciati.
Thérèse ora stava nel mare, che, per Lei, si era fatto Sacro, e l’acqua Le arrivava solo alla vita. Era divenuta immensa.
Mi raccolse tra le Sue mani, e poi mi trascinò sul fondo del mare...
“A phedair pedol arian...” ... nel Suo palazzo sommerso, coperto di conchiglie, impreziosito dai corpi nudi di tutte le Sue amanti immortali, pietrificate da millenni...
“O dan e pedwar troed...” ove mi tenne, tra le altre, con Sua grande soddisfazione...
e la Nostra
“An hani a garan.” … per sempre. [2][3]



________________________________________
[1] Isolotto corallino.
[2]"...Le druidesse, antenate delle fate medioevali e delle streghe,
esperte in sortilegi, disegnavano sui talismani simboli potenti,
capaci di pietrificare i nemici..."
(da un articolo di Cecilia Gatto Trocchi)
[3]i versi in bretone sono tratti da testi di canzoni di A. Stivell.

giovedì 4 marzo 2010

Incontri

(Eh, sì... sono proprio in stand-by.... e allora, stand by me, se ti va, ti racconto questa vecchia, vecchia storia...)




Notte.

Alla barra-joystick di “Tequila Bum Bum”, durante una regata per alcolisti solitari, forse la “Route de l’Absint”
dell’anno che verrà, al largo dell’isola di Koh-ring, al terzo doppio whisky, innestai l’autopilota, mi voltai verso il buio e lo incontrai.

Era un tipetto dallo sguardo acuto, un po’ canzonatorio. Poteva avere cinquanta o sessanta anni, il pizzo, i baffi e uno strano cappello.

“Sei vivo o sei uno zombie, amico? - mi apostrofò subito” Come fai a buttar giù tutta quella porcheria?”

Alice mi ha lasciato per Bufalo Bill, egregio signore” risposi, riprendendomi un po’ “e mi sto consolando. Lei piuttosto da dove salta fuori? Qui siamo in mezzo a un qualche oceano, e io dovrei essere un navigatore solitario.”

“Solitario? Dici sul serio?...” fece uno strano sorriso e poi cambiò discorso “Bellissima la tua trasmittente multibanda SSB, complimenti!”

“Beh, ancora se la cava... Ma lei come fa a...?”

“E che mi dici” riprese lui “del telefonino satellitare, del GPS a sintesi vocale, dell’EPIRB, del WEATHERFAX, del computer... Per non parlare poi di INTERNET...”

“Belli eh?”

“Per Giona con tutta la Balena! Certamente!” fece una pausa e aggiunse “Beh, permetti che mi presenti. Sono un fantasma.”

“Ah. Ecco mi pareva. Mi scusi se non mi alzo in piedi che sennò cado anche in mare, magari, che così poi ci faremmo compagnia meglio. Tuttavia voglio porgerLe tutti i miei rispetti e la mia ammirazione.” risposi biascicando le parole.

Fece una espressione disgustata e borbottò tra sé e sé, scuotendo la testa “Che abbrutimento gli ubriachi! C’è di buono che qualche volta, a noi altri, ci possono vedere...”

Seguì qualche momento di silenzio in cui lui mise insieme i suoi pensieri, mentre io non riuscivo assolutamente ad averne alcuno.

Poi riprese a parlare, istrionico e perentorio al tempo stesso:

“Anche se in queste condizioni sembri più un vegetale che un animale (che è il massimo a cui tu possa aspirare), spenderò le mie parole per tenerti sveglio, avanti che tu possa perdere la rotta, e...

“Ma io ho il pilota automatico!” farfugliai ubriaco.

Alzò gli occhi al cielo e contemplò Rigel, mi parve, o Betelgeuse, o forse era Aldebaran. Quindi prese la bottiglia di whisky, ne guardò il rimanente contenuto, e, senza indugio, me la ruppe sulla testa.

“Taci stolto, e ascolta!”

Io ora lo guardavo con riverente attenzione, massaggiandomi il cranio. Avevo appena avuto una rivelazione!!!

Fece una breve pausa, e poi riprese:

“Io sono
il pilota della Pinta!”

“Uhm...” feci

“Oseresti dubitarne, solitario improbabile?”

“E’ che... Sì, insomma non sembrate un tipo di
fine quattrocento... quasi cinquecento. E poi, inutile nasconderVelo, io Vi ho già visto. In quella fotografia... Insomma... a farla breve... Io Vi conosco!”

Mi guardò di traverso, tra lo stupito e l’incredulo.

“E così, tu...” sussurrò “Tu sapresti chi io sia?”

“In fede mia, ebbene sì, signore.”

“Allora,” e il suo tono diventò solenne “mi devi promettere...”

“...sì, certo.”

“Ecco, nessuno dovrà mai saperlo...”

“Sì, ma poi che male c’è...”

“Zitto!” mi interruppe grave “Non dire nulla.”

Fece una pausa, guardandosi attorno, ispirato. Poi all'improvviso: “Ora devo lasciarti.”

Si alzò di scatto nel pozzetto.

“Volevo dirLe...” aggiunsi un po’ incerto “La bottiglia in testa, sì la craniata... Non mi ha fatto poi così male.”

“E te ne lamenti, stolto? Beh! Certamente! Era metafisica!” rispose “Bando agli indugi, che devo andare. Ora mi tufferò,
poiché non so nuotare.”

“Sì, lo so.” risposi.

Si voltò un po’ sorpreso a guardarmi: “Sai anche questo!?!” mi puntò contro il dito, sorridendo “Ora riprendi il comando della tua barca, comandante!” e si tuffò.

Che sbronza, ragazzi!





Il giorno dopo, verso mezzogiorno, splendeva, bellissimo, il sole.

Calmo e seduto in pozzetto, osservavo “Tequila Bum Bum”, il mio sloop semiautomatico di sessanta piedi, affondare lentamente. Il problema è che avevo appena centrato un container semisommerso alla deriva.

Ci stava scritto sopra “Toxic Waste”. E un bel teschio e tibie sorridente disegnato sopra.

Indossai lentamente la cerata oceanica e presi tutto quanto poteva essere utile per la sopravvivenza appunto in oceano e cioè: il telecomando stagno per l’espulsione automatica della zattera di sopravvivenza, tre scatole di Campari Soda e un apribottiglie.

Azionai il pulsante.

La zattera fuoriuscì dallo specchio di poppa come un razzo. Infatti esplose a mezz’aria, lanciando coriandoli di tessuto gommato dappertutto.

La voce femminile sintetizzata recitava dall’involucro rigido che stava affondando:

“Complimenti per aver scelto il nostro prodotto. All’interno della zattera sarà trasmesso un video di istruzioni di sopravvivenza in mare. Seguiranno video-clip musicali intercalati dalle ultime notizie riguardanti il Vs. salvataggio. Troverete pasti caldi e bevande non alcoliche. Potrete telefonare liberamente ai Vs. cari grazie al telefono satellitare in dotazione. Il dissalatore ed il dispositivo EPIRB di individuazione automatico sono già in funzione. Buona permanenza sulla Vs. zattera “Super Safety” di nostra produzione.”

Guardai inebetito i brandelli della “Super Safety” galleggiare, mentre la voce sintetizzata continuava a recitare: “Per eventuali anomalie nel gonfiaggio, o per qualsiasi reclamo, telefonate pure al nostro numero verde ..., sarete contattati al più presto. Felice naufragio a tutti.”

Fu così che mi ritrovai con un apribottiglie in mano, in piedi sul container dei rifiuti tossici, con le scatole del Campari Soda sotto braccio, mentre osservavo l’albero a cinque ordine di crocette a geometria variabile di “Tequila Bum Bum” andare sotto, in una bella giornata con vento moderato al largo dell’isola di Koh-ring.

Ebbi un colpo di genio, e misi mano al telefonino satellitare waterproof che avevo nella tasca dei bermuda . Chiamai la sede centrale organizzativa della “Route de l’Absint”, la regata per alcolisti solitari a cui partecipavo annualmente.

Mentre sentivo suonare l’apparecchio all’altro capo del mondo, stavo realizzando che anche il container era rimasto danneggiato dalla collisione. Si inclinava leggermente ora, e l’acqua mi stava arrivando alle caviglie.

“Route de l’Absint”, buongiorno!”

“Signorina, pronto signorina. Qui “Tequila Bum Bum”, ho appena fatto naufragio...”

“Che peccato signore! Ma non deve chiamare questo numero. E’ sufficiente che Lei lanci l’autogonfiabile in dotazione e vi salga. La richiesta di soccorso sarà automatica.”

“Signorina, l’autogonfiabile in dotazione è esploso.” affermai.

“Esploso? Insolito! Un attimo che chiedo... rimanga in linea, prego.” seguirono cinque minuti di Bolero di Ravel “Signore? Mi dicono che deve interfacciare il suo GPS con il suo telefonino per individuare la sua posizione.”

“Il mio GPS è andato sotto, signorina, assieme alla barca. Io sono in piedi su un container semisommerso pieno di rifiuti tossici che lo seguirà a breve. Però conosco la mia posizione. Ora gliela trasmetto: Latitudine 4° 15’ Sud, Longitudine 109° 07’ Est. Ha trascritto?”

“Non capisco, signore. Parla in codice?”

“Quale codice, signorina?? Sono le mie coordinate!”

“Attenda che le passo un tecnico, prego... Comunque poteva anche comprarsi un telefonino con il GPS integrato, specie di niubbo! ”

"...!?!"

Quattro Stagioni di Vivaldi. La Primavera. Poi voce sintetizzata:

“Ding! Le parla il Suo (obsoleto) telefono satellitare. Grazie per la preferenza accordatami. La informo che la batteria in dotazione è in via di esaurimento e che dovrà essere allacciata all’alimentatore entro cinque minuti, oppure sostituita con una carica. Grazie.”

“Porca vacca!”

Nona di Beethoven. Coro dall’ Ode “Alla gioia”.

“Porca vacca!”

“Pronto...”

“Finalmente! Sta per esaurirsi la batteria del telefonino! Le mie coordinate sono...”

“Scusi signore. La centralinista della regata mi ha riferito che lei ha bisogno di un tecnico. Io sono il tecnico.”

“E’ il Cielo che vi manda! …”

“Lei deve interlacciare il suo GPS al suo telefonino sat...”

“Ancòra?!?... Il GPS è sott’acqua!”

“Non c’è problema, signore, è stagno.”

“Ding! Le parla il Suo (sorpassato) telefono satellitare. La batteria in dotazione è in via di esaurimento. Dovrà essere allacciata all’alimentatore entro due minuti. Grazie.”

Cercai di spiegarmi meglio:

“Razza di tecnico epidermico comunque troppo pagato, mi ascolti bene. Io sto su un container che affonda e ho l’acqua alle ginocchia. La mia barca è andata. L’autogonfiabile è esploso, e neanche io mi sento molto bene. Ora prenda nota: le mie coordinate sono...”

“Cerchi di stare calmo, e non offenda per favore. Io sto facendo il mio lavoro. Un attimo che prendo la tavoletta grafica degli appunti. Non ce l’ho mandata io laggiù, e nemmeno gliel'ha prescritto il medico!... E poi comunque poteva anche comprarsi un telefonino con il GPS integrato, specie di troll! ”

Pausa. Niente musica. In effetti…

“Pronto, dica pure”

Sparai:

“Latitudine 4° 15’ Sud, Longitudine 109° 07’ Est!!"

...

"Mi ha sentito?”

...

- ? -

“Mi ha sentito?”

“Mi hai sentito??? Diavolo!! Mi hai sentito?!?!”

Poi vidi che la luce del telefonino era spenta. Quel cosino non mi aveva nemmeno avvertito prima di spegnersi.

Mi accorsi che mi mancava la sua vocina sintetica.

Stappai un Campari Soda, mentre le scatole di cartone, bagnate, appoggiate sul container si aprivano e le bottigliette rotolavano rosso-fiammanti sulla superficie metallica, sempre più inclinata.

Il teschio e tibie della dicitura “Toxic Waste” sorrideva contento.

Il container affondava, e intanto liberava una sostanza oleosa galleggiante giallastra dall’odore di mentuccia e cianoacrilato.

Finii il Campari mentre il container mi scaricava nei rifiuti tossici, inabissandosi.

Cosparso di fanghiglia oleosa radioattiva al cianoacrilato-mentuccia, mi tenevo a galla considerando che ultimamente le cose non mi erano andate affatto bene. Improvvisamente presi una craniata da dietro. Mi girai di scatto e vidi che l’oggetto che mi aveva colpito era una barchetta a remi. Anzi una
mezza barchetta a remi, con sopra uno strano tizio, che mi pareva di aver conosciuto già. La sera prima.

“Ci rivediamo, Comandante!” esordì lui, faceto.

“E’ il Cielo che Vi manda! Fatemi salire presto, che
mi sto sciogliendo in mezzo a questa porcheria!”

“Impossibile. Mi dispiace, ci rovesceremmo. Questa non è una barca. E’ una mezza barca monoposto. Non voglio finire lì dentro.”

“Ah, già. E’ inutile che ti chieda come sei arrivato qui, è logico.”

“Logico.”

“E così sei venuto a tenermi compagnia, mentre sto per tirare le cuoia.” dissi, annaspando nella chiazza giallastra.

“Sono venuto a dirti che sei un pollo, ad affidarti ciecamente alla vostra tecnologia del pif. Beh, ti saluto, improbabile comandante solitario del terzo millennio... Ci vediamo… Ah, son contento che ti sei deciso a darmi del tu. Il “Lei”e il “Voi” mi facevano sentire vecchio!

Mamma!!! Babbo!!! Cosa ci fate voi qui!?...”-

“Sveglia dormiglione, alzati!...”

“...Il sole è alto e la brezza è tesa...”

“...è tempo di salpare.




Note:

- le parole e le frasi in corsivo sono strizzatine d'occhio ai seguenti autori e/o fonti:
Lucio Dalla, Joseph Conrad, Ivano Fossati (J'adore Venise - Panama e Dintorni - 1981), Francesco De Gregori, Joshua Slocum (Sailing Alone Around the World - 1900), Roberto Benigni e Massimo Troisi (Non ci resta che piangere-1984), Chi ha incastrato Roger Rabbit - 1988, Monkey Island 2: LeChuck's Revenge di Lucas Art - 1991.
Tutta roba d'annata... ;)

- lo strano fantasma che mi ha tenuto compagnia in questa storia è il Capitano Joshua Slocum, primo uomo al mondo ad aver circumnavigato il globo in solitario, dal 24 aprile 1895 al 27 giugno 1898, dopo una traversata di circa 46.000 miglia. Anche lui, come scrisse in "Sailing Alone Around the World", ebbe il suo bravo fantasma a bordo: il pilota della Pinta. Inoltre, non disponendo di grande liquidità, adattò un relitto di doris, ricavandone una mezza barchetta a remi che utilizzò come barchino di servizio. Il Capitano Joshua Slocum inoltre non sapeva nuotare.


- il disegno all'inizio del post è liberamente ispirato ad una foto d'epoca dello "Spray", la barca con la quale Slocum circumnavigò il globo in solitario.

- l'isola di Koh-ring è
un'isola che non c'è, invenzione letteraria di Joseph Conrad.

- i fantasmi si incontrano spesso in mare, proprio ieri notte sono andato a far pipì a poppa (non è un gioco di parole), scendo i tre gradini della plancetta di poppa, appunto, e mentre l'anima mia finalmente vaga libera per l'oceano, alzo lo sguardo e a venti metri da me tra le mangrovie, anzi, dopo le mangrovie, praticamente nell'acqua a mezzo busto scorgo una figura vestita di bianco che sta di fronte a me e alla mia barca immobile e silenziosa (tipo excalibur, ma senza la spada e con la persona). Aguzzo lo sguardo incredulo mentre finisco la bisogna. Guardo bene, e lui semplicemente esiste, è lì, come se niente fosse, immobile. E' un uomo immerso nell'acqua a mezzo busto.
Mi gratto la testa e poi scorgo, al chiarore pallido della luna, la sua canna da pesca.
Ma come fanno i pescatori???... (Lucio Dalla)
Sempre invidiati per la loro pazienza, io.
Se avete avuto la pazienza di leggere fin qui ve ne sarà reso merito.