sabato 30 maggio 2009

La barca del matto




La barca del matto


Il mare era la Voce.

Il cane si mise ad ascoltarla.

Abbaiò un poco,

di rimando,

seduto ad aspettare.



Poi vide la fregata:

lunghe ali angolari

scrutavano dal cielo

le vele immacolate:

era lo Sguardo.



E l'uomo in pozzetto, lì vicino,

era la Mano:

con dita consuete

lo accarezzava mite,

mentre la prora inseguiva invano

il senno perduto dietro l'orizzonte.



Pupille desolate. Perdute,

tra un ghigno ed un sorriso,

cinque gradi a sud

del tropico del Cancro.

E il cane fiutò intorno.

Rabbrividì sorpreso.








Note: la fregata è un uccello tropicale


L'immagine è tratta da:
http://it.wikipedia.org/wiki/Fregata_(uccello)

Una pietra




Il bambino non era scappato di casa.

E neanche lo avrebbe sfiorato il pensiero di non tornarvi per l’ora di cena.

Solo che aveva cominciato a camminare. E adesso non si fermava più. E nemmeno riusciva a tornare indietro. Le sue gambe lo portavano, e lui seguiva le sue gambe, mentre lo sguardo cercava di svelare gli angoli più nascosti della costa, oltre i muretti di recinzione, al di là della scarpata della ferrovia, attraverso l’intrico dei cespugli di pitosforo.

Il marciapiede era stretto, a volte mancava, e le automobili gli sfrecciavano pericolosamente vicine percorrendo troppo veloci quella statale tortuosa.

Il bambino andava ad Ovest.

Alle volte si tirava su la manica del giubbetto leggero, e guardava il suo piccolo orologio, e si accorgeva che si stava facendo tardi. Allora, invece di fermarsi e tornare indietro, affrettava il passo.

Dopo una curva, una scogliera bellissima si presentò ai suoi occhi: era granito, levigato dal mare e dal vento, e i suoi massi creavano delle forme meravigliose e misteriose, piene di anfratti e ampolle naturali, come piccole piscine, lambite dalle onde di quel mare. Il profumo del vento, ricco degli effluvi marini raccolti fin dal Golfo del Leone, inebriava.

Quell’angolo meraviglioso era a più di cinquanta metri sotto la strada. Un pendìo scosceso, disseminato di sassi, sterpaglie, piante grasse e dirupi divideva il bambino da quel luogo incantato.

Non ci pensò due volte, e scavalcò il guard-rail. Cominciò la discesa cercando con gli occhi il percorso più facile. A volte sbagliava e si trovava sul ciglio di una forra, per cui doveva risalire e ricominciare.

Si sdrucì i pantaloni, si escoriò mani, ginocchia e avambracci, finì contro un’agave, che per fortuna non lo ferì. Ma finalmente arrivò alla scogliera.

Si accorse che poco distante sbucava una stradina sterrata che portava su, alla nazionale. Meno male, non avrebbe fatto fatica a tornare.

Quella discesa gli aveva preso più tempo del previsto, ormai era tardo pomeriggio. Il bambino lo sapeva, ma non voleva pensarci. Si sentiva orgoglioso e felice. Il suo viaggio avventuroso lo aveva condotto in un posto fantastico. Gridò di gioia e si diede subito all’esplorazione di quella scogliera meravigliosa. Scoprì il Grande Lago Salato dei Ricci di Mare, la Guglia Misteriosa, l’Isola delle Scimmie e la Grotta dell’Eterno Fragore. Qui si fermò, si sedette, e pensò che sarebbe stato bello vivere lì. Per sempre.

Il sole tramontò e poi brillò la luna, che si fece alta nel cielo. Il bambino scoprì con meraviglia quale riflesso straordinario sapesse fare quell’astro misterioso sulla superficie del mare, e con immenso stupore si accorse che quel riflesso lo seguiva. Allora si mise a correre lungo gli scogli per vedere quella scia argentata che non lo lasciava un attimo e lo rincorreva come un cagnolino. Rideva felice. Quella sera il mare e la luna erano diventati suoi.

Poi si fermò, e capì di essere irrimediabilmente in ritardo; cominciò a preoccuparsi per i suoi genitori, soprattutto per la vecchia nonna apprensiva. Non voleva che soffrisse. Ma non voleva nemmeno abbandonare il suo regno.

Allora raccolse una pietra. Era di granito, di forma ovoidale, levigata e grande come una noce di cocco. Era pesante. La raccolse dal mare tiepido di quella sera di maggio.
La accarezzò, se la mise, ancora grondante, su di una spalla, e si avviò verso casa.


Note: A quel tempo non c'erano telefonini... ;)
L'immagine è tratta da:
http://lavelocitadelsogno.net/2009/01/11/creuza-de-ma/


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Ar-Men


"L'anno peggiore, si racconta in Bretagna, fu il 1923. In certi giorni i marosi erano così giganteschi da scavalcare i 37 metri del faro di Ar-Men" ... "Il guardiano Fouquet, tagliato fuori dalla terraferma e da tutto il mondo. rimase imprigionato per più di tre mesi. Ar-Men è il più sperduto e il più leggendario tra i 149 fari della Francia..."
(Da un articolo di Corine Renié)


(Disegno liberamente ispirato ad una foto del faro di Ar-men scattata da Guillaume Plisson)


Aveva poco più di trent’anni quando arrivò per la prima volta ad Ar-Men.

A quel tempo vi si poteva accedere solo dal mare, quando era calmo, con una scialuppa della nave, sia per il trasbordo dell’acqua, che dei viveri, che dell’uomo.

Era il principio dell’inverno del 1923.

Foucault era l’uomo.

Tutto avvenne in fretta perché molto presto non sarebbe stato più possibile mantenere la lancia accostata al molo senza che le onde ve la scaraventassero contro.

Si trovò solo.

Ar-Men è un faro eretto sopra ad uno scoglio affiorante, al largo della Bretagna, in pieno Atlantico.

Per i bretoni Ar-Men è l’Inferno degli Inferni, ma questo Foucault non lo sapeva.

Foucault era un marsigliese che amava e disprezzava il mare allo stesso tempo.

Nella lingua francese, il mare è la mer, sostantivo femminile, tanto simile a la mère, la madre.

Il mare per Foucault invece era una puttana. Una puttana che odiava, perché tante volte lo aveva tradito. Una puttana che amava, perché, nonostante tutto, non riusciva a vivere lontano da lei.



Nevicò tutta la notte e lui rimase molto tempo a guardare il fascio di luce, che illuminava la tormenta di neve.

Il mare, secondo le previsioni, aveva cominciato a ingrossare, e alcune volte le onde andavano a percuotere il portone di acciaio dell’ingresso del faro, provocando un cupo rimbombo che si propagava per tutta l’altezza della potente struttura.



Venne l’alba, poi all’ora prestabilita Foucault spense la lampada nel cilindro delle lenti di Fresnel, sotto la cupola di vetro della sommità del faro.


Lo spettacolo, nella luce livida del mattino, fu impressionante.

Foucault non aveva mai assistito ad un mare così maestoso, per potenza, colore, suono e forma. Onde plasmate da un fetch lungo quanto l’Oceano.



Scese in cucina e cominciò a prepararsi il caffè. Mentre l’acqua era sul fuoco diede un’occhiata fuori, attraverso l’oblò.

E la vide danzare sulle onde.

Una vecchia goletta ad armo aurico procedeva al traverso, a poco più di cinquanta metri dal faro!

A bordo si poteva scorgere solo il timoniere, in piedi, alla ruota.

Focault pensò di essere vittima di un’allucinazione quando scorse distintamente che si trattava di una donna, giovane e dai capelli lunghi e rossi. Indossava un leggero abito estivo, nero, tipico delle contadine di Bretagna.

Così assurdo era quell’abito, in mare, con quel gelo, quanto impossibile quella presenza femminile a bordo.

Foucault restò come ipnotizzato a guardare la goletta, per qualche istante, mentre scompariva dal ristretto campo visivo che offriva il suo punto di osservazione.

Scese di corsa al piano sottostante, si affacciò ad un altro oblò, ma non la vide.

Scese di istinto per la ripida scala, giù fino alla piattaforma sugli scogli, all’aperto.

Appena varcata la soglia del portone di acciaio venne travolto da un’ondata gelida, e cadde violentemente, finendo contro il parapetto della piattaforma, e solo grazie a questo non fu scaraventato in mare.

Passato il frangente, rialzatosi, si precipitò verso l’entrata del faro, rimasta aperta. Aveva commesso una sciocchezza imperdonabile, uscendo all’aperto con un tempo simile e rischiando così stupidamente la vita.

Ripensò a quella apparizione. Non poteva essere vera. Foucault ebbe un brivido: quella goletta aveva tutte le vele spiegate! Nessuna nave poteva resistere, così invelata, a quel vento. E poi quella donna! Assurdo!

Doveva trattarsi di un miraggio, di un’illusione ottica. Salì affannosamente i sette piani del faro per controllare da lassù che cosa avesse effettivamente visto.

A più di un miglio di distanza ormai, verso Nord, le bianche vele della goletta sembravano resistere alla forza del vento, né lo sbandamento era eccessivo. Le seguì, stordito, con lo sguardo per lunghi attimi, ma ad un certo punto, all’improvviso, il veliero si ingavonò paurosamente, e mise gli alberi in acqua, scomparendo alla vista. Foucault attese di vedere ricomparire la velatura.

Passarono i secondi, poi i minuti... Rimase a lungo a guardare. Poi capì che non si sarebbe più salvata. Forse qualche osteriggio era stato divelto, o forse si era creata una falla in coperta, e la goletta imbarcando rapidamente acqua aveva ricevuto il colpo mortale...

Prese il binocolo e invano scrutò la superficie schiumosa del mare. Bagnato fradicio, batteva i denti per il freddo, e per l’emozione di ciò che aveva visto.

Dunque non era stata un’allucinazione: la goletta era vera, ed era appena naufragata! Ad una cosa si rifiutava di credere. La visione di quella donna al timone dai capelli rossi, scarmigliati, e la veste leggera agitata dal vento. Era passata così vicina... Eppure ciò non poteva essere vero.

Per i naufraghi, ammesso che fossero ancora vivi, Foucault non poteva fare nulla, se non lanciare immediatamente con il ricetrasmettitore Morse, la richiesta di soccorso per la tragedia a cui aveva appena assistito.

Il suo messaggio fu ricevuto da due navi mercantili e da un incrociatore della Marina Militare Francese, che arrivò sul luogo del naufragio verso mezzogiorno. Perlustrò a lungo nonostante le condizioni del mare peggiorassero di ora in ora, e infine se ne andò comunicando che le ricerche non avevano dato alcun frutto.

Foucault stilò il suo rapporto, guardandosi bene dallo scrivere dello strano timoniere. E nemmeno rivelò che quella goletta aveva tutta la tela a riva, perché ciò non sarebbe stato credibile, data la forza del vento e lo stato del mare.

Giunse la notte, e il guardiano del faro non riusciva a chiudere occhio. Il mare era ingrossato paurosamente, e il vento arrivava ormai a sessanta nodi con raffiche fino a settanta. Le onde spazzavano il faro, alto trentasette metri, fino quasi alla metà della sua altezza.

Era stato necessario applicare le spranghe al portone, e le lastre di ferro agli oblò ai piani inferiori. Il faro tremava sotto i colpi del mare. Il frastuono era assordante.

Foucault aveva paura. Il mare, se voleva, poteva avere la meglio sul faro, e distruggerlo. Foucault lo sapeva, ma ciò aveva sempre fatto parte del gioco della sua vita, fin da quando, bambino, andava sul peschereccio del padre.

Il fragore della tempesta sovrastava ogni rumore; e quindi il lamento di donna che Foucault ogni tanto sentiva, non poteva che essere frutto della sua immaginazione. Del resto non poteva fare nulla, se non controllare che la lampada, lassù, fosse sempre accesa, e pregare che il faro non crollasse, insieme alla sua mente.

All’alba il vento superava costantemente i settanta nodi e i marosi erano diventati così giganteschi che gli spruzzi sormontavano, a volte, la cupola di vetro della sommità del faro.

Si alzò dal suo letto, senza aver dormito per tutta la notte, andò in cucina a preparare la colazione. Mentre l'acqua era sul fuoco diede un’occhiata fuori.

La vide danzare su quel mare d’inferno, lenta e maestosa.

Con tutte le vele spiegate.

E urlò con quanto fiato aveva in gola.




La donna, al timone, si girò lentamente verso il faro, ed il suo sguardo triste penetrò fin dentro le pupille di Focault, e la sua voce delicata risuonò nella mente di lui...

“Scusami se ti ho turbato.” disse “Mi chiamavo Cécile e nacqui a Camaret, laggiù sulla costa. La mia vita era semplice, dedicata al lavoro nei campi di mio padre, e alla cura dei suoi animali; ma era anche radiosa per l’amore che nutrivo per Julien. Dovevamo sposarci in primavera...” sorrise “Di non so più quale anno. Julien era un mercante, e questa è la sua nave.”

L’attimo dopo, Cécile era seduta vicino al braciere che riscaldava la cucina del faro, le mani appoggiate alle ginocchia, strette tra loro. I capelli rossi e bagnati ricadevano a ciocche gocciolanti sul suo bel viso di giovane donna. Poteva avere vent’anni.

“Sento che non mi temi più, e te ne sono grata.” disse.

“Stai cercando Julien?” le chiese Foucault, senza parlare.



“No, lui è all’Inferno.” rispose lei, pacata.

Foucault si sentì raggelare.

“Cerco il mio bambino.” spiegò, abbassando lo sguardo, “Julien mi ebbe, e mi mise incinta. Promise di sposarmi, ma dopo che ebbi partorito, con un inganno, lo portò via.”

“Doveva disfarsi di me e del bambino. Era fidanzato, venni a sapere, con una donna della ricca borghesia di Vannes, stava per sposarla e non voleva scandali.”

“Appena ne ebbi le forze, indebolita da una grave emorragia, corsi al porto dove Julien stava per salpare con la sua nave, e lo implorai di ridarmi il bambino. Lui negò persino di conoscermi, e alle mie insistenze disperate, mi urlò in faccia che l’aveva fatto gettare in mare dall’alta punta di Pen-Hir, dal suo marinaio più fidato, un marsigliese duro e senza scrupoli.”

“Impazzita dal dolore, lo aggredii, e lui prese a picchiarmi selvaggiamente e mi ributtò sul molo. Quindi salpò.”

“Mi precipitai verso le scogliere di Pen-Hir. Giunsi in cima e ne scrutai le ripide pendici, nella assurda speranza di poter trovare... di poter salvare ancora la mia creatura, in qualche anfratto delle rocce. Il vento gelido che viene dall’oceano mi dava la forza di non perdere i sensi, ma avevo ricominciato a sanguinare copiosamente.”

“Non vidi altro che il mare.”

“Il mare che mi accolse, l’attimo dopo.”

“Non è vero che mi tolsi la vita, come dicono in paese.”

“Fu perché scivolai.”

“Sulle levigate rocce di Pen-Hir, io scivolai.”

“Sul mio stesso sangue, scivolai.”

Quella creatura disperata smarriva lo sguardo nel braciere dinanzi, i cui bagliori le balenavano sul viso.

“Giorni dopo” riprese Cécile “la goletta di Julien tornò in porto con il solo equipaggio, ma senza il suo comandante. Era successo la notte prima di arrivare a Vannes per sposarsi. Si era ubriacato con i suoi amici che aveva imbarcato, e poi era andato a orinare fuori bordo, come era solito fare. Non fu mai ritrovato.”

“Molto tempo dopo la sua nave marcì, al ritmo lento delle maree, nel cimitero delle barche di Camaret, e io la feci mia. La uso, quando voglio, per navigare in queste acque alla ricerca del mio bambino.”
“Ma per quanto io l’abbia cercato, non sono mai riuscita a trovarlo.”

Si interruppe, levò repentinamente lo sguardo, e due pupille sfavillanti trafissero il guardiano del faro.

“E ora sono qui. Da te.” disse Cécile.




Il primo turno di Foucault ad Ar-Men sarebbe dovuto durare due settimane.

Il mal tempo perdurò per più di tre mesi con inaudita violenza, e per più di tre mesi Foucault restò prigioniero del faro. Unico suo collegamento fu il radiotrasmettitore Morse, con il quale poteva comunicare il suo stato di salute, che peraltro rimase sempre buono, e ricevere incoraggiamenti e promesse di pronto recupero, puntualmente rimandate.

Ogni mattina, gli abitanti dell’isola di Sein, distante più di venti miglia dallo scoglio di Ar-Men, scrutavano l’orizzonte per vedere se il faro era ancora intero, oppure demolito dalla forza del mare. Mai si era verificato un inverno così terribile, mai un guardiano era rimasto intrappolato così a lungo. Però il faro resistette.

Un bel giorno infine il mare si placò.

Foucault, il più famoso guardiano di Ar-Men, divenne popolare in Bretagna.

Per tutta la vita però, non rivelò mai a nessuno il suo segreto.




Colui che aveva creduto essere suo padre, il pescatore marsigliese dalla dura scorza, ma dall’animo buono, in gioventù aveva lavorato per un mercante bretone dalle parti di Capo Finisterre.

Ed un giorno lontano aveva portato un dono, grande e segreto, alla propria moglie.

Foucault era un marsigliese che amava e rispettava il mare allo stesso tempo.

Nella lingua francese, il mare è la mer, sostantivo femminile, tanto simile a la mère, la madre.

Il mare, per Foucault, non era più una puttana.





Note:

Focault: Il nome del vero guardiano, a cui si ispira questo racconto, era
Fouquet.

Questo racconto mi fu pubblicato dalla rivista Keltica, sotto lo pseudonimo di "miloalgarve".