domenica 13 settembre 2009

Il sogno e la spiaggia


Una lunga spiaggia che scompare lontano dietro un (implacabile) promontorio roccioso, che strapiomba.

Il cielo è plumbeo, la sabbia fine e ondulata dal vento.

Qua e là pietre, alghe secche e conchiglie. Una bottiglia di vetro verde, rotta.

In cielo volano - (groviglio d’ali, piume, grida assordanti. Insaziabile fame) - innumerevoli gabbiani.

Cammino lungo la battigia e le onde bagnano i piedi nelle vecchie scarpe da tennis (...penetra il mare su per le vene e tremano i polsi. Si ferma per un attimo il cuore).

Passi lenti, pesanti. Scarpe inzuppate schizzano, opprimenti e grevi. Resto bloccato (…incantesimo del sale).

Mi siedo. Le onde ora lambiscono le gambe, L’acqua non è fredda. Qui finisce la spiaggia e comincia il mare.

Ho sete e mi lascio scivolare; l’acqua mi
ricopre, ho gli occhi aperti, affondo, e comincio a nuotare sott’acqua verso il largo (...come un placarsi di sete).
Vedo intorno a me, tutto chiaro e perfetto (…cristallo di mare).

Nuoto rasentando il
fondale deserto e sabbioso, l’acqua è limpida e scorgo, lontano, il ripido declinare del fondo, e il blu (…lo zaffiro perfetto, ecco il moana).

Sto respirando l’acqua e sto bene. Osservo le tane dei polpi e piccoli spirografi racchiudersi (…i giardini di inverno).
Non voglio più risalire.
Mi sdraio sulla schiena e la superficie brilla lassù, distante.
Mi siedo sul fondo e
levo le scarpe.

Si allontanano leggere, sulla sabbia ondulata, danzando con la corrente.

Ma c’è qualcosa che galleggia lassù. Voglio andare a vedere, e risalgo.
La spiaggia è lontana, il mare si è fatto d’olio.
Il cielo è tornato azzurro e
splende purissimo il sole.
A poche bracciate da me c’è un pattino, i remi dondolano pigramente sugli scalmi.
E’
di legno, vecchio, dipinto di bianco e d’azzurro. Lo raggiungo e vi salgo.

E ti vedo, seduta e serena che mi saluti ancora con la mano (…rivedo il tuo bel sorriso, mamma...).

Lacrime di rimpianto, di dolore, lacrime che esplodono amare.

Lacrime grosse e salate che cadono e si perdono, del tutto inutili, tra tutto quel sale.



Nota: l'immagine è tratta da:
ANNE DE L'EPINOIS - Bordighera sul capo di Sant' Ampelio

domenica 6 settembre 2009

La leggenda di Cola Pisci


 
“Cola!"
“Coola!”
“OoooColaPiiiiiisciiii!”
Mastro Cirase chiamava da più di un’ora.
“Colaa! O Coola! Cola Pisci!”
Ma Cola Pisci era ancora di sotto. Forse troppo indaffarato.
Chi lo sa cosa combinava quand'era laggiù?
Gli dèi lo sapevano. E nessun altro.
“Coola!”
“Mastro Cirase! Che chiamate a fare? Tanto non vi può sentire!”
“Taci Nescireddu, che ne sai tu! Ci sei mai stato laggiù? Che parli a fare, per Zeus! Zitto!”
(pausa)
“Coola!”
“OoooColaPiiiiiisciiii!”
(silenzio)
“Forse questa volta è affogato.” azzardò Nescireddu.
Mastro Cirase si girò lentamente a guardarlo.
Poi sgranò gli occhi, inarcò le sopracciglia. Grugnì. Alzò il bastone, e prese a rincorrere il ragazzino, per tutta la spiaggia.
“Mastro Cirase! Mastro Cirase! Che fate? Aiuto! Mastro Cirase, Mastro Cirase!” strepitava Nescireddu.
“Ah, piccolo mascalzone! Te lo faccio vedere io se è morto! Puah! Cola Pisci non si deve neanche azzardare a morire! Ora ti prendo!”
“Mastro Cirase, Mastro Cirase! Aiuto! Mastro Cirase, Mastro Cirase!” e scappava come il fulmine.
In quel momento ci fu un’altra scossa tellurica. Poderosa. 

Nescireddu cadde e Mastro Cirase gli fu subito sopra.
“Pietà Mastro Cirase!”
Mastro Cirase rimase ginocchioni, immobile, con il bastone sollevato, la mano stretta sul collo di Nescireddu, la bocca socchiusa e gli occhi sgranati dal terrore.
“Hai sentito Nescireddu?” attonito, a voce bassa, “E’ stata più forte delle altre!”
“Sì, Mastro Cirase. Pietà, Mastro Cirase!”
“Stolto! Non capisci? Si sta sgretolando...”
(Pausa. E intanto continuava a tener stretto Nescireddu per il collo.)
“Il pilastro di Grecale... Il pilastro di Grecale...” aggiunse con voce rotta, ricca di pathos.
Mastro Cirase lasciò lentamente la presa e si rimise dritto all’impiedi.
“Il pilastro, Mastro Cirase?...” chiese rispettosamente Nescireddu, rimettendosi in piedi e riparando sveltamente a distanza di sicurezza.
Il vecchio si girò con un guizzo e cominciò ad arrancare spedito verso la battigia.
Piccole onde frangevano sulla rena dorata, e vi si prosciugavano subito. Piccoli granchi facevano capolino nella sabbia.
Giunto colà, dove finisce il mare, Mastro Cirase si fermò.
Esitò.
Poi si fece coraggio, ed entrò nell’acqua sotto il sole di agosto. E continuò a camminare finché l’acqua non gli giunse alla gola.
“Mastro Cirase, non sapete nuotare... Che fate?” domandò timidamente Nescireddu.
Per tutta risposta Mastro Cirase, fece un gran respiro, infilò la faccia nell’acqua quel tanto che i capelli lunghi e arruffati rimasero ben asciutti, e si mise a fare bolle e gorgoglii.
Poi emerse di scatto e cominciò a rantolare come se stesse crepando.
“Mastro Cirase?...” (lo speranzoso Nescireddu)
Mastro Cirase riuscì ad arrancare faticosamente a riva, e si lasciò cadere sulla sabbia, continuando a tossire.
“Mastro Cirase!” (Nescireddu deluso, a debita distanza)
“Ho bevuto il mare.” tuonò “Ho bevuto tutto il mare, ma per gli dèi, io lo ho chiamato. Ora quando arriva, prima lo scortico vivo, e poi gli dico cosa deve fare!”
E così fu che Cola Pisci emerse dal mare, e Mastro Cirase gli disse che la Trinacria stava scomparendo sotto i flutti perché il pilastro di Grecale si stava sgretolando. E che lui, Cola Pisci, il grande nuotatore, doveva tornare giù negli abissi, questa volta per sempre, per sorreggere il pilastro incrinato della Trinacria.
Per tutta l’eternità.
A queste parole, Cola Pisci rimase a lungo in silenzio.
Guardò Mastro Cirase. Carezzò sulla testa il piccolo Nescireddu.
(Il grato Nescireddu)
Diede l’ultimo sguardo d’amore alla sua terra.
Contemplò il cielo azzurro.
Si soffiò il naso.
Poi si tuffò.
Per l’ultima volta si tuffò.
Nuotò giù, giù nelle gelide e oscure profondità abissali, fino al grande pilastro di Grecale.
E trovò che in effetti era incrinato.
Incrinato sì, ma solo un poco però...
E così fu che fece una spallucciata, prese la più bella sirena di passaggio, e andò con lei a vivere nel Mar Rosso, paradiso dei subacquei.
Questa è la vera storia di Cola Pisci


Note:
questa mia interpretazione della leggenda di Cola Pesce è molto vecchia, ed è già stata riportata sul web, sotto pseudonimo di milo algarve, all'indirizzo:

Però mi è piaciuto ugualmente riproporla qui. Post domenicale... Non ho fatto davvero fatica, questa volta ;)
Propongo il cast:
Mastro Cirase: Diego Abatantuono a 70 anni
Nescireddu: Ninetto Davoli a 7 anni (!)
Cola Pisci: io, naturalmente! ;)
Sirena di passaggio: Natasha Stefanenko a 20 anni! :O
;)

l'immagine è tratta da:
RENATO GUTTUSO - "Colapesce"

mercoledì 12 agosto 2009

Nuvole


Le acque limacciose dell’estuario sanno di risaia.


Bruno non riesce a distogliere lo sguardo dalle righe stampate di quel libro, che diventano sempre più illeggibili nell’incerto chiarore del tramonto.


Non ha mangiato nulla dal mattino. La giornata è tutta trascorsa tra la calura opprimente di quella fine d’agosto e le pagine ingialllite.

Si alza, sudato, dalla branda della cabina di poppa, e, con il libro ancora in mano, va a guardare per l'ennesima volta il barometro.

Ci picchia sopra con il dito, e poi resta per un po’, perplesso, a scrutare quell’ago immobile.

La cucina, a murata, sulla sinistra, è in disordine. I lavelli ingombri di stoviglie sporche, i fornelli unti e incrostati.
Bruno apre il frigo, e avverte un odore nauseante. Posa il libro allungando il braccio fuori, all’imboccatura del tambuccio, e comincia, nella penombra, a svuotare il frigorifero e a disporne il contenuto sul tavolo. Raccoglie un cartoccio con del formaggio ammuffito, sei uova troppo vecchie e un pezzo di salame annerito, sale in pozzetto e getta queste cose avariate nella corrente.

Nella luce rossastra del crepuscolo, nugoli smisurati di zanzare si levano dalla riva in controluce, e, persino, se ne percepisce il suono da lontano; come se quell’infinita schiera di insetti costituisse un unico grande organismo vivente, dotato della voce sorprendente di una linea elettrica ad alta tensione.

Deve mangiare qualcosa. Allora scende sotto di nuovo. Decide per carne in scatola e crackers, e poi ancora crackers e formaggini. Trangugia una birra calda. Scova un vasetto nuovo di sottaceti e lo finisce tutto.
Si apre un’altra lattina di birra, si siede, e se la scola piano piano.
Poi rutta nella penombra.

Si alza e si mette a dare una passata di spugna al fondo viscido e buio del frigo. Ne tocca le pareti, che sono tiepide, e il pannello radiante, appena fresco. Vi rimette tutto quello che è rimasto sul tavolo, e ne chiude il coperchio.

Aziona l’interruttore sul quadro principale e un debole ronzìo viene ad aggiungersi a quello degli insetti. Il motorino del frigo riprende a funzionare, sottraendo energia alle batterie di servizio già esauste. E' ora di accendere il diesel di bordo, e non può più rimandare.

Sale in pozzetto, apre lo sportellino di plastica trasparente, arabescato da mille crepe di sale e di sole, gira la chiave e preme il bottone.

Uno sbocco di fumo nero e acre esce dal ventre della barca, ancorata nel letto dell’estuario, e un martellare matematico riprende a dare vita e nutrimento all’impianto elettrico di bordo.

Bruno sta in quel disgraziato ridosso da troppo tempo. Vi si era rifugiato prima dell’ultima mareggiata insieme a molte altre barche. Passato il maltempo queste erano partite tutte, e lui era rimasto lì. Solo.

Ormai si è fatto buio.

I morsi delle zanzare non lo infastidiscono. Lui è abituato, è nato tra le risaie di una pianura spietata, colma di vita e di veleni per distruggerla. Erano scomparse invece solo le specie più delicate e più belle, mentre le peggiori persistevano, più forti e numerose. Come le zanzare, appunto.

Pensa all’ultimo grande sciame di farfalle che ha visto, qualche anno prima. Volavano sul pelo dell’acqua, al largo, tra Genova e Bastia, sfinite. Alcune morivano così, lievemente, appoggiandosi su quel mare estivo abbonacciato.

Cosa ci facessero laggiù, in mare aperto, se lo chiede ancora.

Lui non ha lasciato l’estuario perché è certo del sopraggiungere di una nuova burrasca. La sente nell’aria, da diversi giorni. La presagisce convinto. Perciò non ha salpato l’ancora insieme agli altri.

E per diversi giorni non è successo nulla: i bollettini meteo sono stati normali, il tempo afoso, il vento debole, alternato a bonaccia.

Salvo che per quelle nuvole a Occidente. Minacciose, scure e immobili, come pietrificate sull’orizzonte, gli rimandano il loro appuntamento.

Gli altri erano salpati tutti, ora saranno in porto da un pezzo.

Ma Bruno ne è sicuro: lui da quell’immobile rifugio non se ne andrà. La tempesta ci sarà presto. E sarà spietata.

Accende la luce sottocoperta e cerca il suo libro, ma non lo trova. Guarda le stoviglie sporche: di lavarle con l’acqua torbida e maleodorante del fiume non se ne parla. Di sprecare la preziosa restante acqua del serbatoio, nemmeno.

Rimanda ancora una volta il problema, e ricomincia a cercare. Poi ricorda di averlo messo di sopra e esce in pozzetto con la torcia elettrica.

Lo trova aperto. Caduto sul carabottino, è con le pagine all’ingiù, spiegazzate in malo modo. Scomposto.

Lo raccoglie e ne accarezza le pagine sgualcite, mentre lo sguardo punta lontano, a Ovest, tra le nuvole ancora accese di rosso, che rincorrono il tramonto, sopra l’orizzonte.

Improvvisamente, più in alto, là dove le nuvole sono già scomparse nel nero della notte che sopraggiunge, il bagliore di un lampo le illumina per un istante.

“Ci siamo!” esclama, e si affretta a spegnere il motore, per poter ascoltare il tuono lontano.

Che non viene.

Rimane a lungo, nel buio di quella notte senza luna, a vegliare le nuvole a Occidente.

A volte scorge lampi lontani, bagliori.

Poi, stanco, torna in cuccetta, a finire quel libro, nella sua barca immobile e ronzante, lambita dalle acque dell’estuario, che scorrono, nere e levigate come marmo.

(Brindo all' Amico triste!
Che possa aver già cambiato umore!)

;)


lunedì 27 luglio 2009

Mr. Tales Coffee - terza puntata


Riassunto delle puntate precedenti: Chiamatemi Miles. Il vecchio Stan è stato affogato nel vino rosso e rischio anch’io di fare la sua fine. Vendo il vino avariato per 300 dollari e, grazie a Nat il benzinaio, riesco a trovare Mr. Tales Coffee, l’unica persona in grado di aiutarmi, nella torrefazione di Susie-Anne Allchantilly: pedicure sotto mentite spoglie, segretamente innamorata di me. Giungono Sym, Sala e Bim, killers prezzolati, esecutori dell’omicidio di Stan. La presenza di Mr. Coffee li mette in fuga, io ho bisogno del bagno e lui me lo indica per 300 dollari.




Uscii dal bagno un quarto d’ora dopo con le idee più chiare e le mutande più scure. Eh, sì, troppo tardi! Mr. Coffee era già uscito e Susie-Anne, nel retrobottega, stava praticando una complessa onicotomia ad un nuovo cliente.


Di una cosa potevo essere certo ora: in futuro avrei potuto avvicinare Tales Coffee per una nuova richiesta senza rischiare di essere ucciso a priori. Le cose si erano messe decisamente bene.


Lasciai un biglietto per Susie-Anne e uscii dalla torrefazione guardingo.


“Dimenticami, SusannaTuttaPanna! Dolcetto del mio caffè, ciliegina sulla torta del mattino! Non c’è futuro per noi” ci avevo scritto bagnandolo copiosamente di lacrime.


Bisogna saper essere veri uomini quando serve.



Se c’è una cosa che il vecchio Stan riconosceva in me, è lo spiccato senso per gli affari, pensai avviando il poderoso otto cilindri della fida Chevy.


Io capisco al volo quanto può valere un affare e quanto bisogna pagare per realizzarlo.


Per la mia prossima richiesta a Mr. Tales Coffee ci sarebbero voluti trentamila dollaroni, non uno di meno, ma avrei definitivamente risolto i miei guai per il futuro, e finalmente vendicato il vecchio Stan.


Poco prima, nel preciso momento in cui ero uscito da quel cesso maleodorante, svuotato nell’animo e non solo, percepivo già, come per un sesto senso, chi era stato il bieco mandante dell’omicidio del mio ottimo socio. E perché l’aveva fatto.


Ma prima di scatenargli la belva alle sue luride calcagna (e a quelle bislacche di quel trio di sgangherati killers), avrei dovuto trovare le prove.


Prove inconfutabili. Prove certe.


Ah, già!... Dimenticavo, e trentamila dollari.

Quindi andai da Nat, ancora una volta. Avevo un conto in sospeso da regolare con lui… per quella sporca soffiata che aveva fatto: mi aveva venduto al trio “Houdini”, così, al primo colpo! L’avrebbe pagata cara!

“Mi devi duecentosessanta sette dollari e trentadue cents! Sono sette pieni, gran figlio di una puttana gonorroica!” disse lui. Sembrava un filo alterato, ma non poteva esagerare, pensai tra me e me.

“Cut’vegna un colp!” risposi, alzando la voce e spadroneggiando in romagnolo com’ero solito fare con lui “Sei tu che mi devi pagare, lurida spia!” e aggiunsi: “So tutto della tua sporca soffiata! Dammi subito trentamila dollari!!!”

Nat sgranò gli occhi, diventò tutto rosso in faccia e mi stese con un pugno, facendomi, tra l’altro, volare un dente.

Quando riaprii gli occhi appresi benevolmente che aveva bisogno di un nuovo lavamacchine dopo che aveva mandato all’ospedale il precedente. Gli aveva rubato seicentonovantaquattro pelli di daino, durante il suo periodo non violento religioso.

“Per fare molti soldi, bisogna cominciare sempre dal basso! Ricordatelo figliolo!” diceva mio nonno. Ora, essere costretto a lavare macchine per Nat, poteva rappresentare un ottimo inizio! Un giorno avrei potuto restituirgli i suoi fottuti dollari per la benzina, raggranellare i trentamila di cui avevo bisogno per Coffee, e pagarmi un dentista.


Sulla conversione improvvisa di Nat, rimaneva un fitto mistero insolubile. Alle mie domande in merito non rispondeva, ma cominciava a guardarmi di brutto. Quindi, visto i trascorsi odontoiatrici, glissavo con classe.


Però lui non era poi male: mi permetteva di indossare sul lavoro il mio ineffabile travestimento da albino, per poter sfuggire al trio Sym Sala Bim sguinzagliato ormai sulle mie tracce. E aveva anche accettato di nascondere la mia Chevy nel vecchio capannone della Gas Station. Ci aveva pure cambiato l'olio!


Praticamente ero in una botte di ferro!


(continua…. Giggle… giggle… :P)

venerdì 17 luglio 2009

La neve sul mare

Aveva ricominciato a nevicare all’alba.


Halia aveva sentito arrivare dal mare quell’odore estraneo, e i suoi occhi avevano visto, nel primo chiarore del giorno, quella assurda distesa.
Allora aveva spiccato il volo, e si era diretto verso il largo.

Passa il tempo, e il sole ora è più alto, dietro lo spesso strato di nuvole. Halia è un esemplare maschio adulto di aquila di mare dalla testa bianca, è stanco e affamato, ed avanza lentamente, tracciando la sua rotta contro le sferzate gelide del vento e della neve.
Punta a ovest: sa che così sarà più facile tornare, dopo essersi saziato. Avrà il vento a favore. Vola alto.

Riappare finalmente, sotto di lui, il mare. Ma ha un colore strano, e troppi uccelli marini, laggiù, schiamazzando, vi si tuffano affamati.
L’aquila ha la vista acuta, e presto si accorge che, dopo essersi tuffati, molti di loro non si rialzano più in volo. Rimangono nell’acqua a sbattere le ali a lungo, fino a sfinirsi.

Allora decide che continuerà a volare controvento, anche se è ormai allo stremo delle forze, fino e oltre il punto di non ritorno.
Halia vuole ritrovare un mare pulito, e salmoni da mangiare, com’era sempre stato dall’inizio dei tempi, sino a quell’alba.


“Risalire e respirare. Sembrava cosa normale, ma oggi non è.
Mi è arrivato invece, sopra la testa, quello strato scuro come di nubi in cielo prima di tempesta. Ma tempesta non è. E in cielo non è.
E’ una cosa malata che sta sopra il mare. La sento. E là che mi attende, dove dovrò risalire.
Io non so rintanarmi qua sotto, come pesce, per andare lontano.
Né rifugiarmi a terra, come foca o lontra, a trovare illusoria salvezza.
Né volare lontano come uccello di mare.
Nella mia candida vita, tra le prede, io dispensai il terrore.
E’ giunto il momento di sapere.”

Orux, giovane femmina adulta di orca, non poté resistere a lungo, e, malgrado sentisse un presagio di morte provenire dalla superficie, il bisogno di respirare prevalse in lei, e si costrinse ad affiorare.
Soffiò l’aria trattenuta da ormai più di venti minuti nei polmoni, in una colonna di vapore bianco nell’aria gelida del mattino e provò a inspirare cautamente.
Lo sfiatatoio si intasò subito e la poca aria inalata era tossica. Piccole gocce di veleno penetrarono nei bronchi che subito si contrassero in un ancestrale spasmo di difesa. Soffiò di nuovo forte per liberarsi e si immerse nuovamente.
Negli angosciosi minuti seguenti lei capì che era finita, e che qualcosa lassù si frapponeva tra l’acqua e l’aria.
Era innaturale e sinistra, vischiosa e letale, e l’avrebbe uccisa.
La sua apnea questa volta durò poco e lei presto fu costretta ad emergere di nuovo.
Disperatamente affamata d’aria, questa volta inspirò con forza, e conobbe il terrore.


I piccoli vi si erano gettati dentro senza alcun timore. Con il solito entusiasmo e la curiosità di ogni giorno, senza badare ai richiami delle madri allarmate. E poco dopo anch’esse li seguirono, vinta la paura, andandogli in soccorso.

Questa volta non era il cacciatore eschimese dal bastone letale, né l’orca possente, e nemmeno lo squalo dalle molte fila di denti.
Erigh sentì che la morte si proponeva sotto un aspetto nuovo, che lui non aveva mai sperimentato in tutta la sua lunga esistenza.
Si trattenne sulle alte rocce, vecchio maschio di foca spaventato, ed emise un lugubre lamento rivolto al grigiore di quell’alba, e a quella neve, che scendeva fitta.

Gli esemplari che tornavano a terra erano ricoperti da uno strato maleodorante che mascherava il loro vero odore. Venivano evitati, o a volte aggrediti, perché non più riconosciuti come membri del branco.
Le ore passavano e la fame cresceva tra la moltitudine di foche barbate. Occorreva entrare in mare per cercare il cibo, malgrado quella cosa che ripugnava.

Erigh li osservò, uno ad uno, entrare in quel mare fatto veleno.
Rimase sulle rocce levigate, il più in alto possibile, isolato.
Decise che per lui non sarebbe più stato il tempo di nutrirsi.


La giornata è trascorsa, e ora manca poco al tramonto.

Il giovane Norman, in piedi, osserva Knud, il vecchio pescatore, dondolare piano sotto la tormenta, mentre, spinto dal vento gelido dell’Artico, gira pigramente su sé stesso, tutto coperto di neve.

I candidi fiocchi hanno appesantito il tetto della sua capanna, e sepolto la sua barca, alata in secco. Ammantano la pianura, la strada, la spiaggia poco distante.

Oggi nascondono anche il mare, avendo formato un leggero strato irreale, che ondeggia piano, galleggiando.

Non è mare ghiacciato, è neve che galleggia sopra il mare: l’impossibile che prende forma.

Norman non aveva mai visto questa cosa.

Il ragazzo, immobile, pensa alla fine del mondo, o che almeno tutto ciò deve assomigliargli un poco.
Poi lo percorre un brivido, estrae il coltello da pesca, e comincia a segare la corda ghiacciata che trattiene il corpo di suo nonno.

All’alba, l’eschimese Knud, aveva visto formarsi, sotto la tormenta di neve, quella coltre bianca che fluttuava, inconcepibile, sulle flebili onde di un mare che era diventato nero.

Quel manto immacolato stava ricoprendo, con i suoi candidi fiocchi, undici milioni di galloni di petrolio greggio, reso denso dal gelo, che galleggiava sul mare e inondava la costa.
Come un pietoso sudario, la neve occultava l’immane catastrofe, e le centinaia di migliaia di animali marini, morti o agonizzanti.

Il vecchio Knud, troppo stanco per guardare oltre, si era impiccato, davanti alla sua casa, sulle ultime propaggini della cittadina di Valdez, in fondo al Prince William Sound, in Alaska, quella mattina, sul finire di marzo.























Immagine tratta da: http://symonsez.wordpress.com

venerdì 5 giugno 2009

Mr. Tales Coffee - seconda puntata

Riassunto della puntata precedente: Chiamatemi Miles. Il mio vecchio amico e socio Stan è stato affogato in sette tonnellate di vino rosso e anch’io mi sento in pericolo. Ottenuti 300 dollari dalla vendita del vino avariato, riesco a rintracciare, grazie a Nat il benzinaio, le orme di Mr. Tales Coffee, l’unica persona in grado di porre fine ai miei guai. In che senso lo vedremo dopo. A quanto pare lui si trova al momento in una torrefazione dalla dubbia fama, di proprietà di una certa Susie-Anne Allchantilly , il tutto nella mia città natale: NewOrleans. Ci vado.

Susie-Anne , a giudicare dai suoni inarticolati che provenivano dal retrobottega, credo stesse eseguendo una manovra molto delicata sul famoso alluce valgo di Tales. La Allchantilly era nota infatti come la migliore pedicure di tutta New Orleans. La torrefazione era naturalmente una copertura. Presi tempo e mi preparai un vero espresso italiano in una tazza di polistirolo da un quarto di gallone. Quando si può bisogna prendere le occasioni al volo. Quindi abbondai con panna, cannella e zucchero.
La testa di Susie-Anne Allchantilly spuntò improvvisamente dal retrobottega con la bava alla bocca:
“Maledetto Miles! Non ti si può mai lasciare solo con il mio caffè!” sbraitò.
“Lo sai che ti adoro Suze!” la blandii con un sorriso allungato.
Venne tirata per il collo all’interno del retrobottega da una mano nera, grande e pelosa.
“Ti amo, Miles!” fece in tempo a squittire, scomparendo oltre la tenda.
Stavo sorseggiando il caffè quando entrarono all’improvviso Sym Ballett, Mino Sala, e Joe Bim .
Sapevo chi erano e pure immaginavo chi li avesse assunti per offrire l’ultima bevuta al mio caro ex-socio Stan. Quel povero figlio di puttana doveva essersi battuto come un leone prima di farsi affogare nel vino, perché si vedeva che tutti e tre portavano il sospensorio. Ebbi un moto d’orgoglio e un altro, intestinale.
“Guarda guarda” disse Sym.
“Chi si vede…” aggiunse Sala.
“Il vecchio Miles!” finì Bim.
Deglutii la crema Chantilly (ci avevo poi messo anche quella nel caffè) e
, pronto a scattare, zompai agilmente in piedi. Me li sentivo di argilla.
“Bastardi! Ve la farò pagare!” sparai “Come sapevate che ero qui?”
“Nat ha cantato…” disse Sym sogghignando.
“E tu pagherai anche per questo… Non immagini cosa ha dovuto sopportare il mio sensibile orecchio italiano!!!” aggiunse Sala disgustato. Infatti gli avevano mozzato l’altro, da piccolo, per via del pedigree.
“Non pensi che Nat sarà ben felice di perdere un cliente del tuo calibro?” mi domandò Bim , e si mise a sghignazzare istericamente.
Il pio Nat mi aveva venduto per qualche gallone di benzina! Da non crederci!
Presi tempo: “Balle! Nat non mi avrebbe mai fatto questo. La sua religione non glielo permette!”
“Si è convertito proprio ora, e si è fatto integralista ateo!” risposero in coro.
“Soch-mel!!” azzardai in emiliano, bluffando e alzando un po’ la voce.
I tre dovettero rimanere molto impressionati, perché arretrarono e i loro volti si fecero terrei.
Capii meglio il motivo quando alle mie spalle udii la voce roca, cavernosa e spietata di Tales Coffee pronunciare lentamente:
“TROPPO CASINO QUI. STATE DISTURBANDO IL MIO ALLUCE.”
Mi voltai e restai impietrito: era uscito dal retrobottega, con un asciugamano in vita e, manco a dirlo, l’artiglieria puntata.
Sym Ballett , detto Uzi per la sua passione per la pistola mitragliatrice, si affrettò a dire: “Mr. C-C-C-Coffee… Noi non s-s-s-sapevamo assolutamente che Lei f-f-f-fosse q-q-q-qui!” Mai soprannome fu più azzeccato.
“Ci perdoni Mr. Coffee!” Aggiunse, con finta disinvoltura, Mino Sala, l’italiano pizzaiolo specializzato in strangolamenti. “Non era nostra intenzione disturbarla in alcun modo!”
Mr. Coffee??... Omioddio!!! Mr. Coffee!!! “ esclamò Joe Bim in tono acuto battendo le mani, e poi, su di un ottava: “Sono un suo fan, lo sa? Sfe-ga-ta-to!!! Già che c’è’ mi farebbe l’autograf… Ouch!!!” Sala Mino l’aveva piegato in due con una gomitata al plesso solare.
“Non lo badi... Ossequi e arrivederla.” Concluse lo strangolatore.
Coffee inarcò un sopracciglio. E i tre squagliarono al volo.
“E TU NON TE NE VAI?” sibilò Tales Coffee, guardandomi di traverso.
“Mr.Tales” risposi con un groppo in gola “Ho un’importante richiesta da farle… “
Lui rimase un attimo interdetto. Si guardò l’artiglieria con noncuranza. Poi chiese:
“E SAREBBE?”
“Saprebbe dirmi dov’è il bagno?”
“IN FONDO A DESTRA.” rispose “E FA TRECENTO DOLLARI.”
“T-là! Giusti, giusti!” Glieli contai leccandomi le dita, tutto contento.



(continua… T-là!!!)

lunedì 1 giugno 2009

Mr. Tales Coffee - prima puntata


Ci sarebbe voluto Mr. Tales Coffee anche questa volta. Per risolvere una volta per tutte questa sporca faccenda. E pararmi il culo.
Ma i soldi non crescono sugli alberi, almeno così dicono. Le foglie caso mai. E poi cadono anche quelle, come pesche mature in una mastella di sangrìa puzzolente.
E, manco a dirlo, fu così che cominciò tutto, maledettamente, in quella implacabile e fredda estate del ‘59.
Il fatto è che non ci avevo i soldi per assumere quel figlio di puttana: Mr. Coffee.

Avevo trovato il caro vecchio Stan a fare il morto in un tino da sette tonnellate di Cabernet Sauvignon. Sempre piaciuto alzare il gomito, ma stavolta forse aveva esagerato.
Il prossimo a cui sarebbe toccato quel brindisi, il suo ex socio, ero io.
Mi sarebbe spettato di diritto quella cortesia, lo sapevo già in anticipo. E ora dovevo correre ai ripari, o per lo meno correre svelto.

Ma prima si trattava di disfarsi in qualche modo di quelle sette tonnellate di vino avariato alla cadaverina-putrescina, o non avrei nemmeno avuto da mettere, dico, la benzina nella mia vecchia Chevy.
Riuscii a rifilarle a una ditta italiana di mia conoscenza, roba da import-export, che venne alla svelta con due autobotti ed un tritacarne, e si occupo’ anche, già che c’era, delle onoranze funebri di Stan. Ci ricavai trecento dollari e una specie di macinato grosso in cambio di quello che, in un’altra occasione, sarebbe diventato un grande rosso.

C’era poco da stare allegri… Sparse le ceneri (non sottilizziamo ora) di quello che era stato il mio più caro amico nel suo stagno da pesci-gatto preferito, avevo ormai quasi finito lacrime e benzina. Era giunto il momento di fare la prossima mossa.

“Ecchelazzo!” disse Nat il benzinaio. Disse proprio così, vedendomi arrivare a spinta. La benzina era finita due miglia più lontano.
Gli dovevo sei pieni ormai vuoti, e da altre sei settimane avevo dimenticato di andarlo a trovare.
“Mi sei mancato gran figlio di una pia donna” disse. Era molto religioso e non poteva dire parolacce. Tantomeno incazzarsi. Aveva un sacco di clienti, ed era sempre in bolletta.
Per farla breve feci il pieno e non lo pagai. Già che c’ero gli chiesi di Mr. Coffee giusto per darmi un po’ di arie.
“Mi devi duecentotrenta quattro dollari e ottanta cents.” disse. Sembrava un filo alterato, ma non poteva esagerare.
“Mà-stà-bòno!” gli risposi alzando la voce in romagnolo. Aveva sempre avuto soggezione della cultura, ed io ne approfittavo a mani basse.
“Quando cominci a parlare in straniero mi confondi, Miles . Lo sai che mi confondi vero? Lo fai apposta, ecco!” disse contrariato, e aggiunse: “Col ciuco che ti do ancora benzina, a te!”
Stava facendo progressi, ma ‘cucco’ non lo poteva ancora dire: troppo osé.
Io lo incalzavo da vicino:
“Muo-và-là!... Dimmi piuttosto di Mr.Coffee. Tales Coffee. Fa il bravo! Dove posso trovarlo? Ho da proporgli un lavoro…”
“Guarda che quello si fa pagare sul serio!” esordì Nat , e cominciò a cantare.
Stare ad ascoltare le sue stonature senza protestare era il prezzo che avrei dovuto pagare per quella soffiata.


Lo trovai alla torrefazione di Susie-Anne Allchantilly , seguendo i salmi di Nat.
Avevo trecento dollari in tasca, una richiesta da fare ed una paura fottuta. Coffee era un tipo da non scherzarci troppo. Era infatti un soggetto molto, molto nervoso.



(Continua... Muo-va-là!!!)

sabato 30 maggio 2009

La barca del matto




La barca del matto


Il mare era la Voce.

Il cane si mise ad ascoltarla.

Abbaiò un poco,

di rimando,

seduto ad aspettare.



Poi vide la fregata:

lunghe ali angolari

scrutavano dal cielo

le vele immacolate:

era lo Sguardo.



E l'uomo in pozzetto, lì vicino,

era la Mano:

con dita consuete

lo accarezzava mite,

mentre la prora inseguiva invano

il senno perduto dietro l'orizzonte.



Pupille desolate. Perdute,

tra un ghigno ed un sorriso,

cinque gradi a sud

del tropico del Cancro.

E il cane fiutò intorno.

Rabbrividì sorpreso.








Note: la fregata è un uccello tropicale


L'immagine è tratta da:
http://it.wikipedia.org/wiki/Fregata_(uccello)

Una pietra




Il bambino non era scappato di casa.

E neanche lo avrebbe sfiorato il pensiero di non tornarvi per l’ora di cena.

Solo che aveva cominciato a camminare. E adesso non si fermava più. E nemmeno riusciva a tornare indietro. Le sue gambe lo portavano, e lui seguiva le sue gambe, mentre lo sguardo cercava di svelare gli angoli più nascosti della costa, oltre i muretti di recinzione, al di là della scarpata della ferrovia, attraverso l’intrico dei cespugli di pitosforo.

Il marciapiede era stretto, a volte mancava, e le automobili gli sfrecciavano pericolosamente vicine percorrendo troppo veloci quella statale tortuosa.

Il bambino andava ad Ovest.

Alle volte si tirava su la manica del giubbetto leggero, e guardava il suo piccolo orologio, e si accorgeva che si stava facendo tardi. Allora, invece di fermarsi e tornare indietro, affrettava il passo.

Dopo una curva, una scogliera bellissima si presentò ai suoi occhi: era granito, levigato dal mare e dal vento, e i suoi massi creavano delle forme meravigliose e misteriose, piene di anfratti e ampolle naturali, come piccole piscine, lambite dalle onde di quel mare. Il profumo del vento, ricco degli effluvi marini raccolti fin dal Golfo del Leone, inebriava.

Quell’angolo meraviglioso era a più di cinquanta metri sotto la strada. Un pendìo scosceso, disseminato di sassi, sterpaglie, piante grasse e dirupi divideva il bambino da quel luogo incantato.

Non ci pensò due volte, e scavalcò il guard-rail. Cominciò la discesa cercando con gli occhi il percorso più facile. A volte sbagliava e si trovava sul ciglio di una forra, per cui doveva risalire e ricominciare.

Si sdrucì i pantaloni, si escoriò mani, ginocchia e avambracci, finì contro un’agave, che per fortuna non lo ferì. Ma finalmente arrivò alla scogliera.

Si accorse che poco distante sbucava una stradina sterrata che portava su, alla nazionale. Meno male, non avrebbe fatto fatica a tornare.

Quella discesa gli aveva preso più tempo del previsto, ormai era tardo pomeriggio. Il bambino lo sapeva, ma non voleva pensarci. Si sentiva orgoglioso e felice. Il suo viaggio avventuroso lo aveva condotto in un posto fantastico. Gridò di gioia e si diede subito all’esplorazione di quella scogliera meravigliosa. Scoprì il Grande Lago Salato dei Ricci di Mare, la Guglia Misteriosa, l’Isola delle Scimmie e la Grotta dell’Eterno Fragore. Qui si fermò, si sedette, e pensò che sarebbe stato bello vivere lì. Per sempre.

Il sole tramontò e poi brillò la luna, che si fece alta nel cielo. Il bambino scoprì con meraviglia quale riflesso straordinario sapesse fare quell’astro misterioso sulla superficie del mare, e con immenso stupore si accorse che quel riflesso lo seguiva. Allora si mise a correre lungo gli scogli per vedere quella scia argentata che non lo lasciava un attimo e lo rincorreva come un cagnolino. Rideva felice. Quella sera il mare e la luna erano diventati suoi.

Poi si fermò, e capì di essere irrimediabilmente in ritardo; cominciò a preoccuparsi per i suoi genitori, soprattutto per la vecchia nonna apprensiva. Non voleva che soffrisse. Ma non voleva nemmeno abbandonare il suo regno.

Allora raccolse una pietra. Era di granito, di forma ovoidale, levigata e grande come una noce di cocco. Era pesante. La raccolse dal mare tiepido di quella sera di maggio.
La accarezzò, se la mise, ancora grondante, su di una spalla, e si avviò verso casa.


Note: A quel tempo non c'erano telefonini... ;)
L'immagine è tratta da:
http://lavelocitadelsogno.net/2009/01/11/creuza-de-ma/


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Ar-Men


"L'anno peggiore, si racconta in Bretagna, fu il 1923. In certi giorni i marosi erano così giganteschi da scavalcare i 37 metri del faro di Ar-Men" ... "Il guardiano Fouquet, tagliato fuori dalla terraferma e da tutto il mondo. rimase imprigionato per più di tre mesi. Ar-Men è il più sperduto e il più leggendario tra i 149 fari della Francia..."
(Da un articolo di Corine Renié)


(Disegno liberamente ispirato ad una foto del faro di Ar-men scattata da Guillaume Plisson)


Aveva poco più di trent’anni quando arrivò per la prima volta ad Ar-Men.

A quel tempo vi si poteva accedere solo dal mare, quando era calmo, con una scialuppa della nave, sia per il trasbordo dell’acqua, che dei viveri, che dell’uomo.

Era il principio dell’inverno del 1923.

Foucault era l’uomo.

Tutto avvenne in fretta perché molto presto non sarebbe stato più possibile mantenere la lancia accostata al molo senza che le onde ve la scaraventassero contro.

Si trovò solo.

Ar-Men è un faro eretto sopra ad uno scoglio affiorante, al largo della Bretagna, in pieno Atlantico.

Per i bretoni Ar-Men è l’Inferno degli Inferni, ma questo Foucault non lo sapeva.

Foucault era un marsigliese che amava e disprezzava il mare allo stesso tempo.

Nella lingua francese, il mare è la mer, sostantivo femminile, tanto simile a la mère, la madre.

Il mare per Foucault invece era una puttana. Una puttana che odiava, perché tante volte lo aveva tradito. Una puttana che amava, perché, nonostante tutto, non riusciva a vivere lontano da lei.



Nevicò tutta la notte e lui rimase molto tempo a guardare il fascio di luce, che illuminava la tormenta di neve.

Il mare, secondo le previsioni, aveva cominciato a ingrossare, e alcune volte le onde andavano a percuotere il portone di acciaio dell’ingresso del faro, provocando un cupo rimbombo che si propagava per tutta l’altezza della potente struttura.



Venne l’alba, poi all’ora prestabilita Foucault spense la lampada nel cilindro delle lenti di Fresnel, sotto la cupola di vetro della sommità del faro.


Lo spettacolo, nella luce livida del mattino, fu impressionante.

Foucault non aveva mai assistito ad un mare così maestoso, per potenza, colore, suono e forma. Onde plasmate da un fetch lungo quanto l’Oceano.



Scese in cucina e cominciò a prepararsi il caffè. Mentre l’acqua era sul fuoco diede un’occhiata fuori, attraverso l’oblò.

E la vide danzare sulle onde.

Una vecchia goletta ad armo aurico procedeva al traverso, a poco più di cinquanta metri dal faro!

A bordo si poteva scorgere solo il timoniere, in piedi, alla ruota.

Focault pensò di essere vittima di un’allucinazione quando scorse distintamente che si trattava di una donna, giovane e dai capelli lunghi e rossi. Indossava un leggero abito estivo, nero, tipico delle contadine di Bretagna.

Così assurdo era quell’abito, in mare, con quel gelo, quanto impossibile quella presenza femminile a bordo.

Foucault restò come ipnotizzato a guardare la goletta, per qualche istante, mentre scompariva dal ristretto campo visivo che offriva il suo punto di osservazione.

Scese di corsa al piano sottostante, si affacciò ad un altro oblò, ma non la vide.

Scese di istinto per la ripida scala, giù fino alla piattaforma sugli scogli, all’aperto.

Appena varcata la soglia del portone di acciaio venne travolto da un’ondata gelida, e cadde violentemente, finendo contro il parapetto della piattaforma, e solo grazie a questo non fu scaraventato in mare.

Passato il frangente, rialzatosi, si precipitò verso l’entrata del faro, rimasta aperta. Aveva commesso una sciocchezza imperdonabile, uscendo all’aperto con un tempo simile e rischiando così stupidamente la vita.

Ripensò a quella apparizione. Non poteva essere vera. Foucault ebbe un brivido: quella goletta aveva tutte le vele spiegate! Nessuna nave poteva resistere, così invelata, a quel vento. E poi quella donna! Assurdo!

Doveva trattarsi di un miraggio, di un’illusione ottica. Salì affannosamente i sette piani del faro per controllare da lassù che cosa avesse effettivamente visto.

A più di un miglio di distanza ormai, verso Nord, le bianche vele della goletta sembravano resistere alla forza del vento, né lo sbandamento era eccessivo. Le seguì, stordito, con lo sguardo per lunghi attimi, ma ad un certo punto, all’improvviso, il veliero si ingavonò paurosamente, e mise gli alberi in acqua, scomparendo alla vista. Foucault attese di vedere ricomparire la velatura.

Passarono i secondi, poi i minuti... Rimase a lungo a guardare. Poi capì che non si sarebbe più salvata. Forse qualche osteriggio era stato divelto, o forse si era creata una falla in coperta, e la goletta imbarcando rapidamente acqua aveva ricevuto il colpo mortale...

Prese il binocolo e invano scrutò la superficie schiumosa del mare. Bagnato fradicio, batteva i denti per il freddo, e per l’emozione di ciò che aveva visto.

Dunque non era stata un’allucinazione: la goletta era vera, ed era appena naufragata! Ad una cosa si rifiutava di credere. La visione di quella donna al timone dai capelli rossi, scarmigliati, e la veste leggera agitata dal vento. Era passata così vicina... Eppure ciò non poteva essere vero.

Per i naufraghi, ammesso che fossero ancora vivi, Foucault non poteva fare nulla, se non lanciare immediatamente con il ricetrasmettitore Morse, la richiesta di soccorso per la tragedia a cui aveva appena assistito.

Il suo messaggio fu ricevuto da due navi mercantili e da un incrociatore della Marina Militare Francese, che arrivò sul luogo del naufragio verso mezzogiorno. Perlustrò a lungo nonostante le condizioni del mare peggiorassero di ora in ora, e infine se ne andò comunicando che le ricerche non avevano dato alcun frutto.

Foucault stilò il suo rapporto, guardandosi bene dallo scrivere dello strano timoniere. E nemmeno rivelò che quella goletta aveva tutta la tela a riva, perché ciò non sarebbe stato credibile, data la forza del vento e lo stato del mare.

Giunse la notte, e il guardiano del faro non riusciva a chiudere occhio. Il mare era ingrossato paurosamente, e il vento arrivava ormai a sessanta nodi con raffiche fino a settanta. Le onde spazzavano il faro, alto trentasette metri, fino quasi alla metà della sua altezza.

Era stato necessario applicare le spranghe al portone, e le lastre di ferro agli oblò ai piani inferiori. Il faro tremava sotto i colpi del mare. Il frastuono era assordante.

Foucault aveva paura. Il mare, se voleva, poteva avere la meglio sul faro, e distruggerlo. Foucault lo sapeva, ma ciò aveva sempre fatto parte del gioco della sua vita, fin da quando, bambino, andava sul peschereccio del padre.

Il fragore della tempesta sovrastava ogni rumore; e quindi il lamento di donna che Foucault ogni tanto sentiva, non poteva che essere frutto della sua immaginazione. Del resto non poteva fare nulla, se non controllare che la lampada, lassù, fosse sempre accesa, e pregare che il faro non crollasse, insieme alla sua mente.

All’alba il vento superava costantemente i settanta nodi e i marosi erano diventati così giganteschi che gli spruzzi sormontavano, a volte, la cupola di vetro della sommità del faro.

Si alzò dal suo letto, senza aver dormito per tutta la notte, andò in cucina a preparare la colazione. Mentre l'acqua era sul fuoco diede un’occhiata fuori.

La vide danzare su quel mare d’inferno, lenta e maestosa.

Con tutte le vele spiegate.

E urlò con quanto fiato aveva in gola.




La donna, al timone, si girò lentamente verso il faro, ed il suo sguardo triste penetrò fin dentro le pupille di Focault, e la sua voce delicata risuonò nella mente di lui...

“Scusami se ti ho turbato.” disse “Mi chiamavo Cécile e nacqui a Camaret, laggiù sulla costa. La mia vita era semplice, dedicata al lavoro nei campi di mio padre, e alla cura dei suoi animali; ma era anche radiosa per l’amore che nutrivo per Julien. Dovevamo sposarci in primavera...” sorrise “Di non so più quale anno. Julien era un mercante, e questa è la sua nave.”

L’attimo dopo, Cécile era seduta vicino al braciere che riscaldava la cucina del faro, le mani appoggiate alle ginocchia, strette tra loro. I capelli rossi e bagnati ricadevano a ciocche gocciolanti sul suo bel viso di giovane donna. Poteva avere vent’anni.

“Sento che non mi temi più, e te ne sono grata.” disse.

“Stai cercando Julien?” le chiese Foucault, senza parlare.



“No, lui è all’Inferno.” rispose lei, pacata.

Foucault si sentì raggelare.

“Cerco il mio bambino.” spiegò, abbassando lo sguardo, “Julien mi ebbe, e mi mise incinta. Promise di sposarmi, ma dopo che ebbi partorito, con un inganno, lo portò via.”

“Doveva disfarsi di me e del bambino. Era fidanzato, venni a sapere, con una donna della ricca borghesia di Vannes, stava per sposarla e non voleva scandali.”

“Appena ne ebbi le forze, indebolita da una grave emorragia, corsi al porto dove Julien stava per salpare con la sua nave, e lo implorai di ridarmi il bambino. Lui negò persino di conoscermi, e alle mie insistenze disperate, mi urlò in faccia che l’aveva fatto gettare in mare dall’alta punta di Pen-Hir, dal suo marinaio più fidato, un marsigliese duro e senza scrupoli.”

“Impazzita dal dolore, lo aggredii, e lui prese a picchiarmi selvaggiamente e mi ributtò sul molo. Quindi salpò.”

“Mi precipitai verso le scogliere di Pen-Hir. Giunsi in cima e ne scrutai le ripide pendici, nella assurda speranza di poter trovare... di poter salvare ancora la mia creatura, in qualche anfratto delle rocce. Il vento gelido che viene dall’oceano mi dava la forza di non perdere i sensi, ma avevo ricominciato a sanguinare copiosamente.”

“Non vidi altro che il mare.”

“Il mare che mi accolse, l’attimo dopo.”

“Non è vero che mi tolsi la vita, come dicono in paese.”

“Fu perché scivolai.”

“Sulle levigate rocce di Pen-Hir, io scivolai.”

“Sul mio stesso sangue, scivolai.”

Quella creatura disperata smarriva lo sguardo nel braciere dinanzi, i cui bagliori le balenavano sul viso.

“Giorni dopo” riprese Cécile “la goletta di Julien tornò in porto con il solo equipaggio, ma senza il suo comandante. Era successo la notte prima di arrivare a Vannes per sposarsi. Si era ubriacato con i suoi amici che aveva imbarcato, e poi era andato a orinare fuori bordo, come era solito fare. Non fu mai ritrovato.”

“Molto tempo dopo la sua nave marcì, al ritmo lento delle maree, nel cimitero delle barche di Camaret, e io la feci mia. La uso, quando voglio, per navigare in queste acque alla ricerca del mio bambino.”
“Ma per quanto io l’abbia cercato, non sono mai riuscita a trovarlo.”

Si interruppe, levò repentinamente lo sguardo, e due pupille sfavillanti trafissero il guardiano del faro.

“E ora sono qui. Da te.” disse Cécile.




Il primo turno di Foucault ad Ar-Men sarebbe dovuto durare due settimane.

Il mal tempo perdurò per più di tre mesi con inaudita violenza, e per più di tre mesi Foucault restò prigioniero del faro. Unico suo collegamento fu il radiotrasmettitore Morse, con il quale poteva comunicare il suo stato di salute, che peraltro rimase sempre buono, e ricevere incoraggiamenti e promesse di pronto recupero, puntualmente rimandate.

Ogni mattina, gli abitanti dell’isola di Sein, distante più di venti miglia dallo scoglio di Ar-Men, scrutavano l’orizzonte per vedere se il faro era ancora intero, oppure demolito dalla forza del mare. Mai si era verificato un inverno così terribile, mai un guardiano era rimasto intrappolato così a lungo. Però il faro resistette.

Un bel giorno infine il mare si placò.

Foucault, il più famoso guardiano di Ar-Men, divenne popolare in Bretagna.

Per tutta la vita però, non rivelò mai a nessuno il suo segreto.




Colui che aveva creduto essere suo padre, il pescatore marsigliese dalla dura scorza, ma dall’animo buono, in gioventù aveva lavorato per un mercante bretone dalle parti di Capo Finisterre.

Ed un giorno lontano aveva portato un dono, grande e segreto, alla propria moglie.

Foucault era un marsigliese che amava e rispettava il mare allo stesso tempo.

Nella lingua francese, il mare è la mer, sostantivo femminile, tanto simile a la mère, la madre.

Il mare, per Foucault, non era più una puttana.





Note:

Focault: Il nome del vero guardiano, a cui si ispira questo racconto, era
Fouquet.

Questo racconto mi fu pubblicato dalla rivista Keltica, sotto lo pseudonimo di "miloalgarve".